La Lettura, 9 dicembre 2023
Lo storico dell’arte esperto in agrumi
Nel 2024 l’HangarBicocca per l’arte contemporanea compie vent’anni. È stata una delle scommesse culturali nate dal vasto intervento di riqualificazione urbana dei vecchi stabilimenti Pirelli di Milano, che comprende anche un’università e il Teatro degli Arcimboldi firmati da Vittorio Gregotti. Dal 2012 l’Hangar – con le sue mostre, eventi, funzioni educative e concerti con ingresso gratuito che attirano quasi mille visitatori al giorno – è diretto dallo spagnolo Vicente Todolí (1958). È il quarto museo che dirige (tra i quali la Tate Modern di Londra) e, oltre all’arte, Vicente ha grande passione per gli agrumi: nella sua Palmera, vicino a Valencia, ha creato la Citrus Foundation, un enorme agrumeto dove sono coltivate circa cinquecento specie di agrumi, alcuni storici.
Todolí, lei conosce più agrumi o più artisti?
«I cinquecento agrumi sono il mio vero museo. Io sono un amateur, ma gli specialisti che vengono a Palmira scoprono varietà storiche che neppure conoscevano. Ora sto per pubblicare un libro di 400 pagine che si intitolerà Agrumi. Un percorso attraverso la storia e l’arte».
È più agricoltore o curatore?
«Ho incominciato con gli agrumi solo anni fa per salvare un’area della mia terra da un progetto edilizio invasivo. L’arte è una passione più antica. In università, concluso il biennio comune dove si studiava Rinascimento e Manierismo, ero indeciso tra storia dell’arte e archeologia. Nel 1976 Francisco Franco era morto da un anno e avevo letto che la Biennale di Venezia dedicava un padiglione alla Spagna dal 1936 al 1976. Facevo la guida turistica e con i soldi mi sono pagato il treno per Venezia: 36 ore. Era la prima volta che uscivo dalla Spagna. Sono arrivato all’ostello della Giudecca ma mi hanno detto che era pieno. Allora si poteva stare con il sacco a pelo ai Giardini di Castello, proprio davanti all’ingresso della Biennale. Il mattino dopo ho acquistato il biglietto, ho visitato l’esposizione e mi sono detto: “Voglio fare questo nella vita”. Ventuno anni dopo ho diretto con Germano Celant una Biennale».
Più facile spremere un limone o la testa di un artista?
«L’artista non devi spremerlo, ma leggerlo, perché lui non sa bene cosa sta facendo. Con Sigmar Polke ho fatto tre mostre. Nella prima lui voleva fare quello che voleva; ma così non si impara, è come giocare a tennis da soli contro il muro. La seconda fu alla Tate Gallery e ci fu più interscambio. La terza, dopo la sua morte, fu pensata da me. Alcuni artisti vorrebbero lasciare tutto al curatore. Io credo che il curatore debba avere in testa un elenco delle opere prima di parlare con l’artista, poi deve discuterne con lui. Mai fare quello che vuole l’artista, è essenziale lo sguardo della distanza».
È un momento di grande connessione tra Spagna e Italia: la mostra di El Greco al Palazzo Reale di Milano, quella sulla pittura spagnola a Napoli, il «Don Carlo» alla Scala, il classicissimo Italia-Spagna agli Europei di calcio del prossimo anno: che rapporto ha con i due Paesi?
«Ho lavorato più in Italia che in Spagna e quando ho ottenuto una borsa Fulbright nel 1981 negli Stati Uniti il mio gruppo di studenti era italiano. Mi innamorai dell’Italia perché era un Paese più libero della Spagna, che usciva dalla dittatura. La mia prima passione fu la letteratura, soprattutto quella italiana e Omero. La storia della mia città, Valencia, è legata all’Italia meridionale attraverso la Casa d’Aragona. C’è una relazione mediterranea, i due Paesi costituiscono la base della cultura mediterranea. La Spagna, però, è anche atlantica e ha un centro senza mare. Il mare è la libertà, il politeismo; il centro è la religione conservativa».
Però lei non propone un’arte mediterranea, anzi, strizza molto l’occhio al resto del mondo...
«L’arte contemporanea è nomade, non territoriale. Anche nel Medioevo gli artisti si muovevano tra le corti. Ritengo che l’arte sia un valore proprio per la sua universalità. Arte è libertà, è andare oltre il confine, per questo ritengo sia meglio l’arte nomade di quella stanziale. Parigi divenne capitale della cultura quando attirò artisti da tutto il mondo. Poi lo furono New York e Berlino. Oggi l’arte è multipolare, tutto è scambio, come testimonia il fenomeno delle residenze per artisti. Non ho mai proposto mostre nazionali, solo individuali o movimenti».
Un curatore d’arte contemporanea è anche un critico? Deve essere anche uno storico dell’arte?
«Penso che conoscere la storia sia utile: come puoi leggere James Joyce senza Omero? Se leggi il passato hai più elementi per analizzare il presente. Poi, nel curatore, è anche questione di sensibilità. Spesso gli storici dell’arte propongono mostre che sono saggi: sono dei ricercatori ciechi. Non devi rischiare di fermarti a un periodo, devi allenare i muscoli per essere in tensione. Devi avere apertura. Quando non succederà più, smetterò».
Un decennio in Hangar: un bilancio?
«Ho cercato di dare forma all’HangarBicocca come è oggi, un luogo di cultura molto frequentato, un punto di riferimento nel sistema dell’arte, parte di un network internazionale che collabora con i più grandi musei».
Come viene pensata la programmazione in un museo o in un luogo espositivo?
«Io penso che avesse ragione l’architetto Luis Kahn: prima di incominciare a fare qualcosa devi aver chiaro cosa vuoi essere. Qui ho visto lo spazio e ho pensato che fosse adatto per sviluppare un dialogo tra artisti. Abbiamo deciso di tenere, ma chiudere con tendaggi, i Sette Palazzi di Kiefer: quando erano aperti era come avere sempre due orchestre che suonavano contemporaneamente e ciò era cacofonico. Così, oggi, abbiamo lo spazio Navata che ospita allestimenti site specific con retrospettive di artisti storicizzati e spesso mai mostrati in Italia e lo spazio Shed per artisti giovani ma già solidi. Qui ci sono sempre mostre mai presentate altrove».
Un problema è la eterogeneità della proposta: Lucio Fontana, Mario Merz, Steve McQueen, Bruce Nauman, giovani meno noti...
«Sono state mostre irripetibili perché in simbiosi con l’architettura, quasi tutte formate qua. La convivenza degli artisti e degli artisti con il luogo è fondamentale. Cerco di non intimidire il visitatore grazie al carattere immersivo dello spazio; agendo sui propri sensi, ciascuno può farsi la propria storia dell’arte. Non cerco la facilità e l’omogeneità della proposta, bensì il contrario: l’imprevedibilità, la creazione di nuove incertezze, l’equilibrio instabile, sempre aperto».
Maurizio Cattelan è il migliore artista che ha portato in Hangar. È d’accordo?
«Quando arrivai alla Tate Gallery invitai Cattelan a esporre alla Turbine Hall, il sancta sanctorum per un contemporaneo. Rispose: mi dispiace, non accetto commissioni. Allora una retrospettiva, dissi. E lui rispose: mi dispiace, è come se mi chiedesse di annegare una persona. Allora cosa facciamo? Si realizzò un progetto dove invitava altri artisti. Alla fine, è venuto qui e ha esposto nello spazio chiamato Cubo Breath Ghosts Blind, tre opere che racchiudevano la sua carriera: l’elemento umano e quello canino insieme, i piccioni sospesi sul filo e l’aereo che si schianta nella torre esposti in una sequenza come nel teatro classico. Oggi continuiamo la collaborazione con una sua pubblicazione».
Il programma del prossimo biennio?
«Propongo artisti nati in un Paese che si sono trasferiti in un altro, cioè artisti nomadi che fuggono i limiti e si confrontano con altre culture. Quattro mostre nello Shed e quattro nella Navata e un allestimento all’esterno».
Veniamo ai primi nomi...
«Chiara Camoni, italiana, con sculture e ceramiche come un giardino rinascimentale, e Nari Ward, giamaicano che vive a New York, con un lavoro performativo e utilizzo di materiali quotidiani. Quindi la uzbeka Saodat Ismailova, che porta una visione orientale nell’Occidente e si sofferma con i suoi filmati sul tema dell’impatto ambientale, e l’indiscusso maestro svizzero Jean Tinguely con la sua arte cinetica. Questo sarà il “suo” museo, come quello che è a lui dedicato in Svizzera. Tinguely era ossessionato dai macchinari e dalle automobili, collezionava Ferrari. Veniva spesso a Milano. Faremo una coreografia delle sue installazioni perché saranno come macchine in movimento e faranno rumore».
E per il 2025?
«Avremo Tarek Atoui, un musicista libanese che fa sculture sonore lavorando con artigiani di diverse comunità, e Yukinori Yanagi, giapponese trasferito in America che ha lavorato con Vito Acconci: la sua opera più celebre era realizzare bandiere di tutto il mondo con la sabbia che venivano distrutte da formiche vive. Anche qui con la sua grande installazione site specific indagherà i temi della globalizzazione e dei confini. Ci saranno poi il punk Yuko Mohri, giapponese che lavora in Europa e dà una seconda vita ai rifiuti (sarà presente alla prossima Biennale), e Nan Goldin, con le sue prime opere, quando lavorava come dj di discoteca, quindi slide show: documenta la vita bohémien del Lower East Side di New York, di Berlino e Londra a partire dagli anni Ottanta, ovvero della generazione che si è confrontata con l’Aids e la creazione di modelli di vita alternativi».
L’installazione?
«È quella di eL Seed: farà un’installazione calligrafica sulle pareti esterne del Cubo che si vedrà dalla tangenziale».
Visto che l’HangarBicocca e la Fondazione Prada ci sono, a Milano c’è bisogno di un museo pubblico di arte contemporanea?
«Sì, c’è bisogno. Noi e Prada siamo fondazioni, non un museo classico. Già quando sorse negli anni Trenta la Galleria il Milione si chiedeva uno spazio per il contemporaneo: un museo completerebbe e aggiungerebbe qualcosa. Sono quasi cent’anni che se ne parla, magari sarà la volta buona».