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 2023  dicembre 09 Sabato calendario

DAGOREPORT! - LA SCALA AL BIVIO: O CAMBIA O MUORE NEL SOTTOSCALA DEL PASSATO - C’È LA SCALA DI TOSCANINI, DI ABBADO, DI MUTI… MA NON C’È, DOPO 10 ANNI DI DIREZIONE, QUELLA DI RICCARDO CHAILLY - GIÙ DALLA SCALA ANCHE IL TRINO MEYER: SOVRINTENDENTE, DIRETTORE ARTISTICO E DIRETTORE GENERALE CHE, AL PARI DI CHAILLY, NON HA BEN COMPRESO  LA REGOLA: LA SCALA NON DEV’ESSERE UN TEATRO D’AVANGUARDIA, MA DEVE ESSERE ALL’AVANGUARDIA…

Nella doppia scala elicoidale del castello di Chambord arrivati in cima da una parte non puoi che scendere dall’altra. Per chi inizia la discesa dalla Scala dopo il “Don Carlo” di ieri?

Il maxi-incasso (2.582.000 euro, 80 mila in più rispetto al 2022) non mette al sicuro l’uno e trino Meyer: sovrintendente, direttore artistico e direttore generale. Se vuol sperare in una proroga oltre la scadenza di inizio 2025 deve per prima cosa schivare - avvocati predisponendo - la Legge antifrancese sul tetto dei 70 anni fatta per Lissner, ma che vien cotta al punto giusto per Meyer. Inoltre, deve cedere una delle tre cariche facendosi affiancare.

Tertium non datur, lo rivela la freddezza mostrata ultimamente dal sindaco e presidente del teatro, Giuseppe Sala, nei suoi confronti: all’assemblea dei soci è intervenuto dicendo che “i milanesi puntano sempre a voler di più” e alla conferenza stampa del 7 dicembre non si è presentato mandando in avanscoperta l’assessore alla Cultura Tommaso Sacchi. Il problema è che il Comune è squattrinato e non ha un euro nemmeno per la Scala, tantomeno per i nuovi laboratori e Sala non sa come uscirne e chi incolpare. Intanto, con i soldi del Pnrr si è deciso che si impacchetterà la facciata della Scala per un anno per pulirla, cosa di cui non ha bisogno.

Alleata di Meyer è l’incertezza su chi, eventualmente, chiamare: nessuno è in grado di scegliere un successore. Il ministro Sangiuliano preferisce “gli italiani”; ma italiani non vuol dire niente: ci sono ottimi amanti del Belpaese nati al di là della sbarra frontaliera e compaesani che scimmiottano modelli internazionali per puro mainstream. Dopo due “cacciate” (Rai e San Carlo), chiamare Fuortes sembrerebbe una scelta di risulta e, un po’, contro il Governo; chiamare Fortunato Ortombina da Venezia una placida barcarola. Forse si potrebbe osare l’inosabile: un sovrintendente lunare che poco c’entra con l’opera e molto con la modernità (che so, Vittorio Colao), un super direttore artistico come Markus Hinterhäuser da Salisburgo (che, per la cronaca, è nato a La Spezia ed è per metà italiano) più un bel ragioniere a far di conto. Ma tutta questa fatica porterà davvero a un teatro migliore?

Riccardo Chailly sembra non aver ancora salito l’ultimo gradino della scala di una straordinaria carriera internazionale: quello della consacrazione da “grande maestro” a mito. C’è la Scala di Toscanini, di Abbado… e, poi, quella degli altri. Chailly ha dimostrato troppo timore assicurandosi una scelta registica senza voli pindarici (talmente senza da sembrare senza regia) e scappando a fine recita indispettito da minimi dissensi espressi da una parte minoritaria del teatro. Lo spettro di Carlo V è, per lui, quello di Abbado. Non si può trovare riparo sempre dietro la filologia della partitura: quello di direttore della Scala è anche un ruolo culturale, sociale – almeno, se vuoi entrare nella Storia, quella vera.

La Scala non dev’essere un teatro d’Avanguardia, ma deve essere all’avanguardia. Va bene il repertorio per riempire il teatro di stranieri che portano quattrini, ma non si può aver sempre timore (pubblico compreso) di regie interpretative e scivolare in messe in scene illustrative, statiche come quadri. Il teatro di regia tedesco non è proponibile, ma il richiamo alla tradizione deve essere a una tradizione che si rinnova, non può essere di regie nuove ma realizzate ancora come Zeffirelli e Pizzi (quelle ci sono in magazzino). Ci sono Michieletto, Romeo Castellucci e molti anglosassoni da chiamare: il turno A, imbalsamato alla Scala da quando non c’erano ancora le poltrone in platea si arrangi!

Giù dalla Scala, con un bel calcione, dovrebbero finire i sindacati della Scala, autentico freno con le loro (secolari) minacce di mobilitazioni e richieste ideologico-finanziarie. In Egitto non si va per Regeni (dall’Egitto viene il petrolio Eni che scalda le case). Arriva la Seconda carica dello Stato in teatro e loro mandano un comunicato con l’Anpi-Scala (ma cos’è l’Anpi Scala?) per dire che non si degnano di stringergli la mano: del resto, i loro predecessori l’hanno volonterosamente stretta a Hitler in una storica tournée in Germania.

Vogliono che le maschere abbiano un contratto di cinque anni, che non esiste nella Legge italiana, con lo scopo di farle poi assumere dal pretore: tanto paga Pantalone e siamo a mille dipendenti. Gli orchestrali possono fare, da dipendenti pagati dallo Stato (più del 30% del loro stipendio son di chi paga le tasse), tre o quattro lavori insieme: orchestrali dipendenti della Fondazione Scala; orchestrali della Filarmonica della Scala che è una diversa associazione privata fatta da loro (tanto la gente non sa di questa differenza); suonare in quartetti o altro servendosi del nome Scala (Quartetto della Scala ecc) suonare da solisti e insegnare. Il tutto sempre lamentandosi e sempre hasta la victoria, Abbado, i diritti sociali, le turnazioni, le controturnazioni, gli straordinari, a chi spetta lavare le camicie in traferta…