La Lettura, 9 dicembre 2023
Il razzismo degli antirazzisti
Si tratta di una nuova ideologia, non capita spesso di vederne nascere una. È un’ideologia che ha trasformato ciò che vuol dire essere di sinistra», dice Yascha Mounk (Monaco di Baviera, 1982). Studioso delle ideologie, ha analizzato la crisi della democrazia liberale e l’ascesa del populismo. In The Identity Trap («La trappola dell’identità»), pubblicato negli Usa e in uscita nel 2024 in Italia per Feltrinelli, esamina le radici di quella che alcuni chiamano ideologia woke — autodescrizione degli attivisti progressisti oggi usata solo dai detrattori – e altri definiscono «politica identitaria», termine troppo ampio per Mounk, che conia l’espressione più neutra «sintesi identitaria». «Un dato interessante è che si tratta di un’ideologia che finge di non esistere. Se prendi il socialismo, sostenitori e critici possono usare lo stesso nome, ma in questo caso no. E non c’è un singolo studio accademico serio sulle origini intellettuali della sintesi identitaria, solo trattamenti piuttosto polemici di certi agitatori di destra».
La parola «woke» ha origine nella cultura nera. Il comico Bill Burns dice che i bianchi progressisti se ne sono impadroniti e hanno rovinato tutto.
«Sì, l’origine risale alla cultura nera, con allusione a Platone: woke è colui che è sveglio, ha gli occhi aperti e vede il mondo per quello che è. Poi, come dice la battuta di Burns, è stata usata dagli attivisti progressisti. Oggi la si sente più su Fox News che nella sinistra americana».
Quali sono i principi di questa ideologia?
«Primo, per capire il mondo dobbiamo guardare alle categorie identitarie: razza, genere e orientamento sessuale. Secondo: ogni valore universalista e regole come quelle della Costituzione americana o italiana sono solo modi per renderci ciechi e perpetuare le ingiustizie basate sull’identità. Terzo: per fare progressi politici, bisogna buttar via valori universali e regole neutrali, e assicurarci che il modo in cui ci trattiamo l’un l’altro e lo Stato tratta tutti noi dipenda dal gruppo in cui siamo nati».
Per esempio?
«Ci sono scuole americane che hanno l’obiettivo esplicito di spingere gli allievi a pensare a sé stessi come creature razziali, con insegnanti che a 6-7 anni li separano in base alla razza. Anche se l’idea è quella di ispirarli a essere antirazzisti, secondo me è molto più probabile che questo renda i ragazzi razzisti».
E come è nata la «sintesi identitaria»?
«Ha le sue radici intellettuali nel postmodernismo, con pensatori come Michel Foucault, che criticano le grande narrazioni che strutturano il nostro modo di capire la realtà, che si tratti del marxismo o della democrazia liberale. Il secondo passaggio sono i pensatori post-colonialisti attirati dall’aspetto critico del postmodernismo: lo usano per ridurre il potere delle ideologie che hanno storicamente giustificato il colonialismo. Edward Said vuole cambiare il discorso per dare potere ai deboli e toglierlo ai potenti. Gayatri Spivak, studiosa della letteratura, crede che sul piano filosofico le idee essenzialiste sull’identità siano sbagliate, ma che per ragioni pratiche e politiche dobbiamo comunque usarle: parla di essenzialismo strategico. E arriviamo alla Critical Race Theory, la teoria critica della razza, che dice che i tentativi di risolvere il problema del razzismo attraverso l’integrazione e la lotta contro la segregazione sono sbagliati, che non siamo stati affatto in grado di fare veri progressi, che nel 2000 l’America è razzista quanto lo era 50 o 150 anni fa. Queste idee ispirano gran parte della sinistra radicale di oggi, caratterizzata da uno scetticismo profondo verso ogni verità universale o neutrale».
Ma c’è chi sostiene che la società americana è sempre stata e sempre sarà una società tribale.
«Sicuramente l’origine etnica è sempre stata importante, ma la domanda da porsi è come nella storia degli Stati Uniti siano stati fatti i progressi. Esiste una tradizione di figure afroamericane capaci di denunciare l’ipocrisia della società, ma anche di invocare i valori universali. Il discorso di Frederick Douglass (politico, scrittore e oratore nato schiavo nell’Ottocento, ndr) su cosa dovrebbe significare il 4 luglio per un nero americano non suggeriva di abbandonare quei valori, ma affermava che se si credeva nei testi dei Padri fondatori che professano l’uguaglianza, si dovesse abolire la schiavitù. Questo universalismo ha ispirato Martin Luther King e Barack Obama. Eppure oggi le istituzioni, peraltro dominate dai bianchi, accettano una filosofia opposta. Derrick Bell, fondatore della Critical Race Theory, sostiene che bisogna rigettare la defunta ideologia dell’uguaglianza razziale del movimento dei diritti civili; Kimberlé Crenshaw, figura centrale del movimento, si dice agli antipodi rispetto alle idee politiche di Obama».
È stata una reazione sia a Obama che a Trump?
«Sicuramente Obama non ha potuto fare tanti progressi quanti alcuni speravano. E l’elezione di Trump è parsa confermare il pessimismo su cosa sia l’America».
«Black Lives Matter» fa parte di questa ideologia?
«Spesso, nella storia, gli afroamericani sono stati trattati come se avessero meno valore dei bianchi, quindi lo slogan è valido e importante. Il problema è che questo movimento è diventato in diversi casi estremo, eppure impossibile da criticare per via del suo slogan. Nel 2020, per molti media era quasi impossibile criticare l’idea di abolire la polizia, anche se, secondo i sondaggi, non era quello che voleva la maggioranza degli afroamericani. Dopo il 7 ottobre abbiamo visto manifestazioni contro Israele con immagini dei deltaplani usati dai miliziani di Hamas sull’invito, promosse da Black Lives Matter. Le parti estreme di questo movimento dovrebbero essere criticate, anche se lo slogan che usano è giusto. Inoltre, i sostenitori di questa ideologia dicono che deve essere rispettata perché è la voce organica delle minoranze etniche o dei giovani, ma in realtà è un gruppo prevalentemente bianco, ricco e istruito in università prestigiose».
Le critiche anti-woke della destra sono sincere?
«Alcune sì: vengono da persone che credono nei valori di liberalismo e universalismo. Ma molti altri lo fanno per dare più potere alla maggioranza etnica e religiosa. Non sono sinceri se si oppongono ai limiti alla libertà di espressione adottati per ragioni progressiste dalle università americane, ma vogliono altri limiti che proteggano il punto di vista della destra».
Qual è la risposta che la sinistra liberale può dare?
«Nella politica americana, c’è quasi l’impressione che se non accetti queste idee, devi votare per Trump. Ed è uno dei rischi. C’è un nuovo 10% di elettori repubblicani che sono abbastanza giovani, non bianchi, abbastanza progressisti sulle questioni culturali, ma contrari a quello che vedono come l’influenza dell’ideologia woke nell’istruzione. Se Trump vincerà la presidenza l’anno prossimo, questo gruppo giocherà un ruolo importante. Il liberalism può dare tre risposte ai tre principi fondanti della “sintesi identitaria”. Primo: certo, bisogna essere coscienti delle discriminazioni razziali e sessiste, ma non sono l’unico punto di vista per capire la società; bisogna guardare al ruolo della classe, della religione... e lasciare che la situazione ci insegni cos’è importante volta per volta. Secondo: l’idea che non abbiamo fatto progressi e che l’America del 2000 non sia più giusta di quella del 1950 o del 1850 è offensiva per chi ha subito abusi assai peggiori in passato. Terzo: se vogliamo continuare a fare progressi, li otterremo applicando davvero i valori universali, non rigettandoli».
La sua storia personale ha influenzato le sue idee?
«So cosa succede quando le società sono divise in tribù identitarie. Amicizie, opportunità, matrimoni sono definiti dal gruppo di nascita. Ciò limita le persone in modo estremo, spesso porta a genocidi. Per me l’idea di insegnare agli studenti a vedersi come esseri razziali e pensare che ciò sia il fondamento di un’utopia progressista è sbagliato. Ma forse c’è anche qualcosa di più personale. Crescendo in Germania, quando menzionavo le mie origini ebree, c’erano persone che volevano trattarmi in modo particolarmente positivo, filosemitico. Ma notavo che avevano paura di parlare di certi temi perché, diremmo oggi, temevano di commettere “microaggressioni” e si creava una distanza enorme tra me e gli altri. È impossibile essere concittadini se vieni trattato in modo esageratamente cauto. Cresciuto come rappresentante di un gruppo di vittime, gli ebrei in Germania, poi mi sono trasferito negli Stati Uniti, dove sono visto come rappresentante dei carnefici. In certe situazioni c’è l’idea che io debba trattare gli altri come venivo trattato da bambino in Germania. Ma la mia esperienza mi dice che non è così che si crea una società di uguali».