La Stampa, 9 dicembre 2023
Su Turandot
Alle donne non è data l’implacabilità, non è concessa la freddezza. Non c’è eroina, icona, guru, principessa ribelle, che sia impermeabile all’amore romantico, alla passionalità febbrile, alla combattività tumultuosa. Non c’è regina delle nevi che non si sciolga, cuore in inverno che non conosca primavera. Non c’è donna che rifiuti l’amore. Tranne una: Turandot. La maestosa eccezione che stasera apre la stagione lirica del Teatro San Carlo di Napoli, con la regia di Vasily Barkhatov (fantastico: la capitale dell’Italia mediterranea e sciupafemmine, porta in scena un’opera raggelante, cyberpunk, una storia anfibia e futuribile, mentre la capitale del grande nord sceglie Verdi, la Spagna, l’Inquisizione, una lotta antica tra maschi antichi, un dramma caldo e d’assetto, inchiodato allo status quo: Napoli salta, Milano si siede).Turandot, ultima opera di Puccini, che muore prima di riuscire a ultimarla, è la principessa di Pechino che manda a morte chi non risolve i tre enigmi che propone a chi la chiede in moglie: il primo che li risolve, diventa marito. Naturalmente, è un’ecatombe. Gli enigmi sono raffinati, difficilissimi, tortuosi. E non c’è modo di convincere Turandot a concedere una grazia, oppure a scegliere una strada meno violenta, un duello più umano, e non perché lei sia una spietata sanguinaria, un’inclemente assassina assetata di potere, ma perché ha giurato di fare giustizia del femminicidio di una sua ava, assassinata molti anni prima da uno straniero durante la dominazione tartara.Sono gli anni Venti del Novecento. Puccini è consapevole della straordinarietà di un personaggio così, dell’unicità di una donna che escogita un trucco tanto spietato per fare giustizia senza perdono. È un uomo: sa che alle donne è assegnato il destino e il dovere della bontà, del sentimento (sempre lo stesso: l’amore). Sa, quindi, di aver dato vita a un’eroina che spegne invece di ardere, respinge invece di sedurre. La virtù di Turandot è la sua imperturbabilità, il cuore di ghiaccio bollente. Ed è per questo che Puccini non riesce a concludere l’opera: non sa decidersi sul finale perché sa che sciogliere quel suo cuore, facendola innamorare, significa snaturarla, omologarla. Significa dire: tutto l’universo obbedisce all’amore perché la natura delle donne obbedisce all’amore. Significa arrendersi alla narrazione consueta del femminile, quella che fece scrivere a Matilde Serao, in una lettera alla sua migliore amica: «Non credo al femminismo perché credo che nessuna donna rinuncerebbe a un uomo, all’amore e alla famiglia». Puccini sa altrettanto bene, però, che riconoscere alla freddezza di Turandot il valore di un sentimento nuovo e possibile, e di usarlo come fondamento di una nuova idea di femminile, comporta misura: quello che non può fare è tratteggiare un’eroina sopraffatta, inclemente fino alla cattiveria. Sa, Puccini, che proteggere l’unicità di Turandot significa anche non renderla prigioniera di sé, sorda alla vita, ottusa. Farla innamorare, in questo senso, offre una soluzione appropriata: cedendo all’amore, Turandot dimostrerebbe di non essere ottenebrata da se stessa, intontita dal suo scopo. Ma il punto non è cedere all’amore: il punto è rifiutarlo. Il punto è che Turandot ha progettato di vivere senza amore e, per difendere il suo progetto, ha ideato un terribile stratagemma, che le permette anche di compiere giustizia. Siamo autentici quando restiamo fedeli a noi stessi o quando ci tradiamo? Che succede quando, nella nostra vita, irrompe l’altro? Turandot è la più maestosa storia di un eroismo che consiste nella difesa della propria soggettività: gli eroi e le eroine (soprattutto le eroine) fanno ciò che devono e non ciò che vogliono, disonorano il desiderio, onorano la funzione.Il 25 aprile del 1926, quando la Turandot va per la prima volta in scena, alla Scala di Milano, Toscanini, che dirige l’orchestra, si ferma alla metà del terzo atto e dice: «Qui Giacomo Puccini morì». Il finale, con Turandot che sposa Calaf, l’unico che è riuscito a risolvere i tre enigmi, e quindi scioglie il suo cuore, è opera di Franco Alfano, il compositore napoletano al quale, dopo la morte di Puccini, nel 1924, viene affidata la conclusione del libretto, cui q il maestro s’era applicato negli ultimi mesi della sua vita, senza mai venirne a capo, forse perché aveva scelto di rappresentare l’ambiguità e di certo perché non era riuscito a scoprire quale fosse il bene di Turandot: preservarne l’innovazione, farne una capostipite, o usarla per raccontare che siamo umani nella cedevolezza e nella clemenza, anche quando l’altro ci rovina i piani, ci smentisce, e di fatto ci dimezza. La cosa più potente che Puccini fa per Turandot, però, non è salvarla dal lieto fine (dopotutto, ci ha pensato qualcun altro), ma fare innamorare di lei Calaf, al punto da spingerlo a rischiare la vita provando a risolvere i tre enigmi, quando la vede nella sua massima spietatezza. È il secondo atto, e lei entra finalmente in scena (in nessuna opera la protagonista entra in scena così tardi): ha appena deciso di non graziare il principe di Persia, sebbene la folla glielo abbia chiesto, impietosita, perché è un ragazzo giovanissimo, bello, dolcissimo. È la stessa folla che, quando si era saputo che quel principe aveva fallito, aveva esultato pregustando l’esecuzione in piazza: Turandot non cede alla volubilità del popolo.Ed è nel momento della sua massima spietatezza e implacabilità che Calaf si innamora di lei: la riconosce libera, unica, intoccabile. La ama nel momento in cui tutti, in lei, vedono soltanto un mostro. La ama quando non cede, perché non cede. Ed è questa la lezione che ci serve imparare.