Corriere della Sera, 9 dicembre 2023
Draghi a capo dell’Europa?
Come tanti August Esch, uno dei Sonnambuli raccontati nel 1930 da Herman Broch, viviamo una vita inquieta e senza baricentro, in un “mondo in preda all’anarchia, in cui nessuno sa più se sta a destra o a sinistra, sopra o sotto”... Tutto peggiora in grande fretta: già ferita da due guerre, la faccia della Terra rischia di uscire sfigurata dal crash-test del 2024. Ci aspetta al varco il nuovo Disordine Globale. Le Grand Continent ha calcolato che l’anno prossimo, tra consultazioni nazionali, locali e municipali, si voterà in 76 paesi. Saranno chiamate alle urne 4 miliardi e 90 milioni di persone, pari al 51 per cento della popolazione e a più della metà del Pil del Pianeta. Ci saranno elezioni ovunque, negli Stati Uniti, dove aleggia il fantasma di Trump. In Russia, dove incombe il plebiscito per Putin. In India, dove incuba il sogno alter-mondialista di Modi. E, poi in Turchia, Indonesia, Pakistan, dove cova l’ambizione del Gioco Grande delle potenze regionali.
A giugno si voterà anche in Europa, dove il buio è ancora più fitto, gli Stati membri vagano a fari spenti e le opinioni pubbliche non sanno cosa aspettarsi. Per questo la candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Commissione sarebbe comunque una svolta, per un’Unione che ha smarrito il senso di sé e della sua ragion d’essere.L’autorevolezza e il prestigio dell’uomo non sono in discussione. Con ilWhatever it takes e ilQuantitative Easing,da banchiere centrale, ha già salvato l’euro. Con una governance riformata e rafforzata, da statista internazionale, avrebbe tutte le carte in regola per salvare l’Europa. Ma sappiamo bene che le variabili sono tante, e le incognite ancora di più. Non bastano l’endorsement di Macron, e neanche l’eventuale via libera di Scholz, ad aprire le porte di Palais Berlaymont all’ex premier italiano. Serve un consenso molto più largo, che attraverso un responso elettorale al momento non prevedibile scombini e ricombini le famiglie politiche europee, facendole convergere (anche a Bruxelles, com’è già successo a Roma) su una figura tecnocratica e no-partisan.E poi, soprattutto, è necessaria una convergenza comune e condivisa delle due donne che in questa vicenda avrebbero l’ultima parola. Da un lato Ursula von der Leyen: è già da mesi in campagna elettorale per la riconferma, e per far posto al “superiore” dovrebbe accettare un passo indietro e magari una poltrona di ripiego alla Nato. Dall’altro lato Giorgia Meloni: dismessa ogni velleità di fondere in un unico “cartello” i conservatori (riuniti nel gruppo Ecr di cui lei stessa è leader, con i polacchi di Diritto e Giustizia e i cechi del Partito Democratico Civico) e i popolari (guidati da Manfred Weber, con la Cdu tedesca, i gollisti francesi, i centristi spagnoli e i Forzisti italiani), adesso la presidente del Consiglio dovrebbe offrire il sostegno pieno e incondizionato del governo italiano al suo predecessore a Palazzo Chigi.Un’ipotesi affascinante, ma azzardata. Per almeno due ragioni. La prima: la Sorella d’Italia dovrebbe fare da main sponsor all’ex capo di un esecutivo di cui per un anno è stata la sola fiera oppositrice. La seconda: Matteo Salvini (iscritto invece al gruppo Identità e Democrazia, insieme a Le Pen, Wilders e i neonazisti tedeschi di Afd) dovrebbe ingoiare la candidatura dell’ex presidente della Bce, dopo che domenica scorsa ha riunito al Cantiere Nero di Firenze la peggiore ultra-destra del Vecchio Continente, al grido “no al Golia massonico, no all’Europa dei Soros e dei banchieri”. Certo, l’etica dell’irresponsabilità e dell’incoerenza è ormai la vera cifra politica dei populisti-sovranisti contemporanei. Ma il sentiero è veramente stretto. A meno che i due fratelli-coltelli al potere non vedano nel trasloco di Draghi ai vertici delle istituzioni europee un modo elegante per sfilarlo definitivamente dalla contesa su quelle italiane, è arduo pensare che si immolino per lui nell’Unione dei veti e dei veleni.Detto tutto questo, e anche a voler prescindere dal destino personale di Draghi, resta il fatto che la sua visione sul mondo e la sua previsione sul finis Europae sono inconfutabili. Quando sostiene che “il modello di crescita si è dissolto e bisogna reinventarlo, ma per fare questo occorre diventare Stato”, dice una verità incontestabile. E lo stesso vale quando parla dell’urgenza di arrivare a “una maggiore integrazione politica”, a un “vero Parlamento d’Europa”, a una “politica estera realmente coordinata”, a nuove fonti di finanziamento “della difesa comune e della lotta al cambiamento climatico”. La Storia ci sta preparando appuntamenti insidiosi, che diventeranno ancora più pericolosi anche al di là dalle prossime tornate elettorali. Il conflitto israelo-palestinese minaccia di sconvolgere il Mediterraneo, e di disegnare geometrie variabili e imprevedibili tra Superpotenze (la Cina) e Stati Canaglia (l’Iran, il Qatar, il Libano). La guerra russo-ucraina mostra tutta la fatica d’Occidente, mentre Putin sfodera una “resilienza” inaudita, facendosi accogliere tra tutti gli onori dal principe saudita Bin Salman e facendosi un baffo sia delle sanzioni che non hanno messo in ginocchio l’economia russa, sia della controffensiva di Kiev che non è mai neanche cominciata. La Pax Americana è ormai ovunque una reliquia del passato, tra Biden che inciampa sulla sua anagrafe e sugli scandali di suo figlio e Trump che promette di stravincere le presidenziali e di fare il “dittatore solo il primo giorno, per chiudere i confini e poi trivellare ovunque”.Di fronte a questi cambi del paradigma universale, l’Europa dovrebbe mostrarsi politicamente e moralmente all’altezza delle sfide. Riscrivendo le sue regole, a partire dal voto a maggioranza in Consiglio e conferendo poteri realmente esecutivi alla Commissione. E procedendo subito dopo all’allargamento a Est, a partire proprio dall’Ucraina che andrebbe messa in sicurezza indipendentemente dalle sorti di Zelensky. Soprattutto, e cito ancora una volta Draghi, in questo “momento critico” gli Stati d’Europa dovrebbero riconoscersi in “quei valori fondanti che ci hanno messo insieme”. Purtroppo oggi sembrano svaniti. Ed è questo il vero deficit, che svuota dall’interno le liberal-democrazie rendendole sempre più sfibrate. E quasi inservibili agli occhi deiforgotten men che si ritraggono, lasciando il campo a una sorta di “populismo senza popolo”, pronto a esasperare le solite paure, a sobillare il solito odio, a spacciare le solite promesse.Si avvera così l’amara profezia di Milan Kundera che nel 1983, inOccidente prigioniero, anticipava la domanda cruciale sul futuro nostro e su quello dei nostri figli: “In quale ambito si realizzeranno valori supremi capaci di unire l’Europa? Le conquiste della tecnica? Il mercato? I media? O la politica?Ma quale? Quella di destra o quella di sinistra? Esiste ancora, al di sopra di questo manicheismo tanto idiota quanto invalicabile, un ideale comune percepibile?”. Sono passati quarant’anni esatti. E non abbiamo ancora la risposta.