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 2023  dicembre 10 Domenica calendario

Vincenzo Cerami ritratto da Sandro Veronesi

Sandro

Mia madre mi ha battezzato Alessandro, e ha sempre continuato a chiamarmi Alessandro anche dopo che io ho cominciato a farmi chiamare Sandro. Lei, per sua decisione: Alessandro. Gli altri, per decisione mia: Sandro — ma il fatto è che non amavo particolarmente il mio nome, né quando era Alessandro né dopo che è diventato Sandro. Non è che non mi piacesse, ma nemmeno lo amavo. Non lo amavo quando ho incontrato Vincenzo, a Parigi, nella primavera del 1985. Abbiamo passeggiato tutta la mattina, abbiamo parlato, ci siamo conosciuti, faceva ancora freddo, la gente tossiva, e io non amavo il mio nome. È Vincenzo che mi ha insegnato ad amarlo, da quel giorno in poi. L’ha fatto in due modi: 1) amandolo lui, perché c’era dell’amore in quel nome, «Sandro», quando lo pronunciava, e c’era dell’amore perché, 2) c’era un altro Sandro che Vincenzo amava, oltre a me, un altro Sandro che come me desiderava fare lo scrittore, che grazie a Vincenzo è diventato un mio grande amico ma che è stato molto meno fortunato di me. Sandro Onofri è poi riuscito a diventare uno scrittore, e pure dei più bravi, e probabilmente lo sarebbe diventato anche senza conoscere Vincenzo, ma ogni volta che io e lui ci vedevamo, Sandro & Sandro, sapendo che era la stessa cosa per entrambi, ci ripetevamo l’un l’altro il mantra dell’immensa riconoscenza che provavamo per Vincenzo. Quando Sandro morì, nel 1999, a 44 anni, Vincenzo parve perdere un figlio, o un fratello: perdeva in effetti un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, e io lo sapevo, e lui sapeva che io lo sapevo. Anch’io perdevo un fratello, e lui lo sapeva, e io sapevo che lui lo sapeva. Non ho perso però l’amore che frattanto, grazie a Vincenzo e all’altro Sandro, avevo trovato per il mio nome. Ciampino

L’infanzia di Vincenzo.

La maglietta a V di lana. La casa senza libri.

La benda sull’occhio per la difterite.

Il padre Maresciallo dell’aeronautica, che trasferisce la famiglia dall’Alberone a Ciampino.

Ciampino.

La bellezza di Ciampino.

Anzi: la bellezza, grazie a Vincenzo, di Ciampino.

Non c’è forse bellezza in quella scuola media di Ciampino chiamata Francesco Petrarca, in via Pignatelli, «una villettina che io mi ricordo liberty ma sicuramente, nella realtà, deve essere stata una cosa orrenda»? Non c’è forse bellezza in quelle ricreazioni nel «giardinetto», e nella cravatta spelacchiata che svolazza al collo di quel «professorino giovane che insegnava alla terza media, che giocava a pallone e tirava bene»? Non c’è forse un’immensa, karmica bellezza nelle scene mute per timidezza che Vincenzo ha fatto per tutto il primo anno alle interrogazioni, così da venire bocciato, così da dover ripetere la prima, così da ritrovarsi allievo di quel professorino che ricominciava il triennio da capo, e si chiamava Pier Paolo Pasolini? (I virgolettati provengono da Storia di altre storie. Il gioco della memoria, il libro scritto nel 2012 da Vincenzo Cerami insieme a Francesco Guccini e pubblicato da Piemme).

Non è bello, tutto questo? Eppure potete scommettere che di bello, lì attorno, per chilometri e chilometri, non c’era nulla.

Pasolini

Il suo Pasolini: «Per noi era il professor Pier Paolo Pasolini, ma era anche solo un ragazzo vestito come noi, povero come noi, con la camicia tutta sdrucita e la cravatta che era uno straccetto lacero». La ragione per cui Vincenzo è diventato uno scrittore.

Il mio Pasolini: Vincenzo mi ha dato una casa a Roma quando il mio problema era distanziarmi dalla laurea in Architettura presa a Firenze — la ragione per cui io sono diventato uno scrittore. E la casa che mi ha dato non era, come mi aveva detto nell’atto di offrirmela, uno studio dove non andava mai, ma un appartamento a Monteverde Vecchio dove sua moglie Graziella aveva raccolto e ordinato tutte le cose appartenute a Pasolini, del quale lei era cugina ed erede — da cui l’emozione quotidiana e incredibile di vivere nel museo di Pasolini: di sedere sulla poltrona di Pasolini a leggere le poesie di Pasolini o I racconti di Canterbury e il Decameron con le chiose a lapis di Pasolini; di ascoltare i dischi della Callas dedicati a Pasolini sul giradischi di Pasolini; di dormire nel «semplice lettuccio, con coperte infiorate tessute da donne calabresi o sarde» che Pasolini sogna nella Religione del mio tempo, quando è ancora povero, per la sua casa di quando non lo sarà più, e che effettivamente poi si è comprato, col «suo Zigaina» appeso alla parete; di scrivere metà del mio primo romanzo sulla Lettera 22 di Pasolini.

Sono rimasto in quella casa per otto mesi, che ancora oggi mi sembrano tantissimi. Quando l’ho lasciata, di mia iniziativa, per trasferirmi in una camera ammobiliata, quello che Vincenzo mi disse fu: «Fai come credi, ma potevi starci quanto volevi».

Borghesia

Vincenzo non era borghese. Credo sia proprio grazie a quell’incontro nella scuola di Ciampino che si è creata la bolla che gli ha permesso di non essere borghese, pur essendo stato della borghesia prima un frutto (di quella piccola piccola), e successivamente, per tutta la vita, un prodigioso narratore. Se ci fosse — e c’è — una scala che possa misurare il grado di compromissione di ognuno di noi (noi borghesi) con l’attitudine predatoria che la borghesia, affermandosi, ha sviluppato nei confronti dell’etica e dell’estetica, della religione e della tradizione, dell’ambiente e dell’occidente, del gusto e del giusto, della libertà e delle diversità, della politica e della critica, del sesso e del diritto stesso, di questa scala Vincenzo dev’essere davvero considerato il grado zero.

Innocenza

«Nel quartiere borghese, c’è la pace/ di cui ognuno dentro si contenta,/ anche vilmente, e di cui vorrebbe/ piena ogni sera della sua esistenza./ Ah, essere diverso — in un mondo che pure/ è in colpa — significa non essere innocente...» (PPP, La religione del mio tempo).

Ora voglio dire una cosa, ed è una cosa che ho già detto nella prefazione alla ristampa di Fattacci (Garzanti, 2020), ma meglio di così non la so dire, e non voglio dirla peggio, e perciò la ripeto pari pari: «Torniamo in quel giardinetto della scuola media di Ciampino dei primi anni Cinquanta. Era innocente quel professore dalla camicia sdrucita? Era innocente la “gentarella anonima, e quindi pura” che lo circondava — e dalla quale provenivano i ragazzini affidati a lui? Era innocente quell’Italia? Erano innocenti almeno quei ragazzi? Pasolini ha esaurientemente risposto a queste domande, in tante occasioni: no. Anzi, quella domanda l’ha superata, come spesso faceva, oltrepassando il significato stesso della parola in questione, ribaltandole addosso il suo contrario. Basti pensare alla Sequenza del fiore di carta, il cortometraggio con cui Pasolini partecipò, insieme a Lizzani, Bellocchio, Godard e Bertolucci, al film collettivo intitolato Amore e rabbia del 1969: Ninetto Davoli che saltella tra la gente per le strade di Roma, e danza, leggero, sorridente, innocente, ripetendo come in un mantra “L’innocenza è una colpa, l’innocenza è una colpa”».

Ma, allo stesso tempo, sempre parlando di innocenza, non si può non soffermarsi sulle ultime poesie pubblicate da Vincenzo prima della sua morte, nella silloge intitolata Alla luce del sole — quei versi chiari, miti, definitivi, dove si arriva a sostenere che «niente di più innocente/ c’è al mondo/ che non sapere e aver saputo/ niente».

Pietas

È la parola che Vincenzo pronunciava più spesso. Ed è nella continua oscillazione tra colpa e innocenza che si consacra la pietas nei confronti dei suoi personaggi, siano essi d’invenzione o realmente esistiti come nelle ricostruzioni dei fattacci di cronaca cui si è sempre dedicato. Anzi, proprio nel racconto dei fattacci il suo magistero si fa limpido e terso — a misura di quanto le storie sono invece torbide e oscure. I libri sono solo il terminale di un lungo processo di lavorazione che riciclava l’immondizia prodotta dall’Italia borghese. Prima di tutto l’immondizia andava raccolta, in quello che Vincenzo definiva il «limaccio della vita reale», cioè nei tinelli e nelle camere da letto della sua città, le pattumiere della vita privata. Gli articoli sulla cronaca romana del «Messaggero» erano i semilavorati, la trasformazione di uno scarto in un oggetto nuovo — di un trafiletto in un reportage. La raccolta in volume dava il prodotto finito, con i salti in avanti e indietro della voce narrante, il rapporto tra figure e sfondo, l’ironia, il pathos, la banalità del male. Cioè, la letteratura. La lingua e la sua consustanzialità con i luoghi nominati: la Magliana, Castro Pretorio, la Stazione Termini, il Portuense, l’Esquilino, o, nelle puntate fuori città, Montefiascone, Ostia, Torvajanica. L’equidistanza: il male è lì, lo senti che è vicino, che pulsa: per oltrepassare la linea che lo separa da quella «pace di cui ognuno dentro si contenta» non è mai necessario più di un passo — tanto per chi lo compie quanto per chi lo subisce, o anche solo lo racconta. Vincenzo, uomo buono, quando racconta i fattacci è sempre lì nel mezzo, e il suo sguardo è sempre ravvicinato, consapevole — compassionevole, appunto. Quando un giovanotto impicca un nano al suo foulard Vincenzo è lì, e la sua terzietà sparisce: è l’uno e l’altro, ed è questa la pietas di cui parlava sempre. Quando la morte arriva, quel suo essere lì le ruba lo spazio, la rimpicciolisce, la costringe a diventare un dettaglio: «D’improvviso il giovane vide l’ometto irrigidire i pugni e bloccarsi nell’immobilità. Dai piedi caddero a terra le due ciabattine».

Morte

La morte, del resto, quel primo giorno passeggiò insieme a noi per le strade di Parigi, nella primavera del 1985. Io avevo 26 anni, lui 44, e la morte era lì a un passo — una presenza che però con lui vicino pareva chiara, amichevole, leggera. Parlammo di morte quando mi raccontò la ragione del suo viaggio: scovare e studiare i testamenti dei grandi scrittori francesi dell’Ottocento — non quelli letterari ma proprio i lasciti materiali, che riguardavano la roba. (Non l’ha mai portato in fondo, quel progetto, e adesso che è morto penso che forse dovrei portarlo in fondo io). E parlammo di morte quando mi raccontò d’esser nato nel giorno dei morti, il 2 novembre del 1940, e di esser stato battezzato Vincenzo come un fratellino maggiore morto prima che lui nascesse — circostanza che lo aveva portato a trascorrere tutti i compleanni al cimitero, coi crisantemi in mano, insieme ai suoi genitori in lacrime, davanti a una piccola tomba col suo nome e cognome scritti sopra.

Parla di morte il suo ultimo libro di poesie — sempre lei, sempre amica, sempre a un passo. Il libro s’intitola Alla luce del sole e sembra che quella luce sia proprio la morte. Sapendolo malato, dopo averlo letto gliene ho chiesto conto, preoccupato. Vincenzo mi ha risposto così: «La morte, che tu hai intercettato nel mio libro di poesie e che ti ha angosciato, naviga in mezzo ai versi malgrado abbia fatto di tutto per tenerla fuori. La stragrande maggioranza delle poesie sono una rielaborazione di cose scritte nel giro di quarant’anni: si vede che la morte mi stava addosso fin da allora, a mia insaputa. Tuttavia penso che la sua occulta presenza mi sia servita a parlare del suo contrario, della non-morte. A pensarci bene, quanta francescana creaturalità, esaltando tutto ciò che vive, rende omaggio e mostra gratitudine alla sorella morte».