La Stampa, 8 dicembre 2023
Il cioccolato diventa amaro
Brutte notizie, per gli amanti del cioccolato: non solo lo pagheremo di più, ma in futuro dobbiamo anche rassegnarci ad averne sempre di meno. La colpa è del cambiamento climatico in Costa d’Avorio, dove si stanno alternando siccità e improvvise alluvioni. È come il battito di ali della farfalla di Pechino che genera un uragano a New York: un Paese africano poco più grande dell’Italia di fatto è l’artefice dei rincari nei carrelli della spesa di tutto il mondo.
Nel 2023 il prezzo delle fave di cacao è schizzato del 62%. Dopo l’olio extravergine di oliva, ricordano gli analisti di Areté, è la commodity agricola che quest’anno è aumentata di più. Un bell’aumento di costo, per le aziende che producono cioccolato.
Giovanni Agostoni rappresenta la terza generazione della famiglia alla guida della Icam, che in 80 anni è passata da un laboratorio artigianale in Valtellina a due stabilimenti industriali del cioccolato e oltre 200 milioni di euro di fatturato. «Mi ricordo benissimo che 13 anni fa, quando sono entrato in azienda, alla borsa di Londra il cacao aveva raggiunto le 2.300 sterline alla tonnellata. Era l’apocalisse, si diceva, un incremento senza precedenti nella storia: in media, lo si era sempre comprato a 1.600 sterline. Non avevamo visto ancora niente: oggi, a Londra, il cacao si vende a 3.500 sterline». Il mondo produce 5 milioni di tonnellate di cacao all’anno e di queste 2,3 milioni arrivano dalla Costa d’Avorio. «Il secondo produttore mondiale è il Ghana – racconta Agostoni – ma fa solo 700mila tonnellate. È chiaro che il prezzo lo fanno gli ivoriani».
In Costa d’Avorio stanno succedendo molte cose. Le piantagioni di cacao invecchiano e ancora non c’è stato il giusto ricambio. Durante l’ultima stagione sono mancati i fertilizzanti per colpa della guerra in Ucraina. Ma più di tutto c’è un tema climatico: «Il raccolto principale – spiega Agostoni – quello che in Africa è appena iniziato e si concluderà a marzo, e che da solo vale 1,8 milioni di tonnellate, è previsto in diminuzione del 25%. Su scala mondiale, vuol dire avere a disposizione l’11% di cacao in meno». A complicare il quadro degli approvvigionamenti arriverà anche la nuova normativa Ue per la difesa delle foreste: da quando entrerà in vigore, non si potranno più importare in Europa materie prime prodotte da terreni oggetto di deforestazione successiva al 2020.
La crisi del cacao però non è solo un’emergenza del 2023. È cominciata prima, ed è qui per restare a lungo. «L’aumento del prezzo delle fave non sarà una tantum – sostiene Janluca de Waijer, da due mesi alla guida di Domori, uno dei marchi d’eccellenza del cacao made in Italy e parte del polo del Gusto di Riccardo Illy – la produttività delle piantagioni è in diminuzione, tra siccità e alluvioni. E adesso ci si è messa anche la paura per gli effetti del Niño, la cui prima conseguenza è stata quella di far aumentare la speculazione su prezzi già alti». Alla Domori per ora sono tranquilli, nei depositi hanno scorte per 10 o anche 12 mesi. Ma il cacao incide per più della metà dei loro costi di produzione e per il futuro occorre fare delle scelte: «Produrre di meno non lo prendiamo in considerazione – dice de Waijer – perché in questo momento la nostra domanda è in crescita. Per capire di quanto aumenteranno ancora le quotazioni bisognerà aspettare la fine dell’anno, ma una cosa è sicura: i consumatori devono prepararsi a pagarlo di più, il cioccolato».
Per far fronte al calo produttivo dell’Africa, in molti ora puntano sul Sudamerica. Domori, per esempio, ha piantagioni di proprietà in Venezuela e in Ecuador. Quest’ultimo Paese oggi è già il terzo produttore mondiale di cacao, anche se garantisce solo 470mila tonnellate all’anno. «L’Ecuador è un esempio virtuoso – dice Agostoni – qui sono riusciti a raggiungere un aumento significativo della produttività delle piante che, se proseguisse di questo passo, potrebbe compensare la perdita di produzione della Costa d’Avorio. Per per avere più quantità di cacao nei prossimi anni c’è solo una strada maestra, ed è quella della ricerca, per selezionare le piante più resistenti ai cambiamenti». Ma i prezzi, intanto? «Icam – dice Agostoni – fa molto business in partnership con i retailer: cercheremo di contenere gli aumenti rinunciando a una quota dei nostri margini, almeno nella prima parte del 2024». La vera incognita sarà dunque la seconda parte dell’anno prossimo.