La Stampa, 8 dicembre 2023
Carrère, il mio amato avversario
Il 13 novembre 2015 un commando di musulmani radicalizzati arrivato a Parigi dal Belgio uccide in tre distinti attentati 130 persone, tra lo Stade de France, il Bataclan e i dehors di alcuni locali nell’est della città.
L’8 settembre 2021 alcune centinaia di avvocati, giornalisti, sopravvissuti o parenti delle vittime attraversano per la prima volta i metal detector che attraverseranno ogni giorno, dal lunedì al venerdì, per un anno. Inizia il processo del secolo, in una scatola di tamburato bianco lunga 45 metri e larga 15, priva di finestre, costata allo Stato francese sette milioni di euro.
Tra i giornalisti ce n’è uno particolare: Emmanuel Carrère. Ha chiesto lui al Nouvel Observateur, con cui ha già collaborato, di seguire il processo. Per un anno consegnerà circa 7800 battute ogni lunedì mattina. Ma gli appunti del suo taccuino rosso non gli serviranno solo per il giornale, saranno i mattoni con cui costruire uno dei suoi libri più importanti, V 13, dal nome con cui in Francia è conosciuto il processo, appunto.
V 13 è diviso in tre parti: le Vittime, gli Imputati, la Corte. Il secondo paragrafo del primo capitolo è di una densità quasi insostenibile, fondamentale per capire cosa c’entri Carrère con quel processo.
La domanda che Carrère si pone è: perché? Perché infliggersi questo? Nel suo caso si tratta di passare un anno di vita in una maxiaula di tribunale, con la mascherina sul viso, svegliandosi ogni mattina molto presto per riordinare gli appunti del giorno avanti. Un anno di vita in un ambiente illuminato solo dalla luce artificiale, seduto su panche scomode, esposto a tempeste emotive di segno diverso, a seconda che depongano i sopravvissuti o gli imputati. «Non sappiamo cosa aspettarci, non sappiamo cosa succederà. Coraggio». È quello che Carrère dice a se stesso.
Perché? È una domanda che riguarda chiunque scriva, anche me. Chi te lo fa fare? Scrivere non è divertente, o lo è solo di rado. Ingaggia tutto il tuo essere in una lotta dall’esito incerto contro i tuoi limiti, le tue resistenze. Ogni volta devi attraversarti, sfibrarti; scomporti e poi ricomporti. Io temo sempre di morire prima di arrivare alla fine. Chi me l’ha fatto fare l’anno scorso di perdermi o quasi in un bosco di notte? Accompagnata, certo, in condizioni di relativa sicurezza.
Se fosse un avvocato o un giornalista, si dice Carrère, la risposta sarebbe ovvia: starebbe facendo il suo lavoro. Ma lui è uno scrittore, e da scrittore sta facendo il giornalista senza che nessuno glielo abbia chiesto. Eppure la sua presenza in tribunale gli è così urgente da non potersi sottrarre. Quella sofferenza sulle scomode panche è necessaria. D’altronde quante volte è così nella vita. Quante volte ho desiderato digitare il punto finale, liberarmi, e quante volte ho avuto nostalgia, dopo, del percorso che lo ha preceduto.
Il desiderio, appunto. Citando gli psicoanalisti, Carrère dice, sempre nel paragrafo intitolato Il programma, che uno scrittore è legittimato solo dal suo desiderio. Riguardo al V 13 Carrère ha come motivazione un interesse alle religioni e alle loro deviazioni patologiche. Vorrebbe capire dove comincia la follia quando è coinvolto Dio. Cosa c’è nella testa della gente che uccide in suo nome. Nello specifico si tratta della testa di quei ragazzi partiti da Molenbeek, quartiere di Bruxelles considerato un covo di fondamentalisti radicalizzati, che hanno formato il “convoglio della morte": tre auto a bordo delle quali i dieci membri del commando sono arrivati a Parigi il giorno prima della strage. Nessuno di loro sarà al processo, sono tutti morti per essersi fatti esplodere o essere stati uccisi dalla polizia: «l’azione della giustizia nei loro confronti si è estinta». Nella scatola saranno presenti 14 imputati con gradi diversi di responsabilità negli attentati, e saranno presenti i sopravvissuti e i parenti delle vittime.
Carrère si aspetta di uscire cambiato dall’ascolto di «esperienze estreme di morte e di vita»: è soprattutto per quello che ci va. Ma credo che, in fondo, ci sia l’attrazione irresistibile per il Male, come tema, argomento, oggetto di conoscenza. E il Male si può conoscere solo avvicinandolo, rischiando una momentanea prossimità con chi lo ha esercitato o addirittura incarnato.
L’autore non è nuovo a questa impresa, ha già scritto L’avversario. La storia di Jean-Claude Romand, che la mattina del 9 gennaio 1993 uccide sua moglie e i bambini. Nello stesso momento lo scrittore è in una riunione all’asilo di suo figlio. Più tardi va a pranzo con tutta la famiglia dai propri genitori, mentre Romand va dai suoi. Dopo mangiato uccide anche loro. Per ultimo i vecchi coniugi vedono, «sotto le sembianze dell’amato figlio, colui che la Bibbia chiama Satana: l’Avversario».
Com’è possibile scegliere di esplorare l’altra parte della barricata, quella dell’orrore? Perché vogliamo conoscere il carnefice più che le vittime? Cosa cerchiamo quando ci avviciniamo così tanto all’Avversario? Sempre noi stessi, io credo. Perché una scintilla del Male che l’altro ha agito, è anche dentro di noi. Incistata, controllata, segreta, nascosta. Natura ammantata sotto spessi strati di cultura, educazione, regole sociali. Molti non sanno nemmeno di averla, quella scintilla. Spaventati, non si autorizzano a guardarne la luce sinistra. Si credono buoni, se proprio devono trovarsi un difetto dicono: io sono troppo buono. E c’è chi invece la propria scintilla la sa, la sente. Sono certa che chi scrive la percepisce in sé. È anche da lì che scaturisce quel desiderio irriducibile di entrare nelle pieghe umane più profonde. È sempre da un nostro materiale interno che partiamo. Per questo l’Avversario ci affascina: è qualcuno, radicalmente altro da noi, che ha dato ossigeno e combustibile alla propria scintilla, forse simile alla nostra, e ha acceso un grande fuoco. Si è permesso di liberare ciò che noi con più o meno sforzo teniamo a bada. Ci accostiamo a lui con l’interesse anche morboso di chi guarda l’incendio senza bruciarsi, senza cadere tra le fiamme. Oggettiviamo simbolicamente il male che è dentro di noi, dove cova, innocuo. Ci basta avvicinarci fino a sentire il calore che emana e ritrarci poi nelle nostre certezze. Ci rassicuriamo: il male è stato all’opera ma non siamo noi ad averlo commesso