la Repubblica, 8 dicembre 2023
Un paese che non ha più niente da dire
Mentre scrivo non so ancora come è andata a finire alla Scala, dove i sindacalisti della Cgil e l’Associazione partigiani hanno annunciato la renitenza al saluto istituzionale, poiché le istituzioni sono rappresentate da un presidente del Senato mai inappellabile nella condanna al fascismo. Sono però disposto a scommettere sulla sensatezza del mio articoletto prevedendo il poco o più probabilmente il nulla. Tutti noi conosciamo, e qualcuno l’ha ricordata, la contestazione del’68 guidata da Mario Capanna, quando trecento ragazzi del Movimento studentesco accolsero smoking e pellicce con lancio di uova e frutta marce sul coro “falce e martello borghesi al macello”. È un dei prodromi più celebri del decennio di piombo, culminato dieci anni dopo nel sequestro e nell’assassinio di Aldo Moro. Questo nostro mirabile paese, mi pare, non ha mai avuto uno spiccatissimo senso del ridicolo, ma un senso del tragico sì, e le storie di molti di quei ragazzi, rimaste impigliate nella P38 con cui hanno distrutto vite altrui e le proprie, è lì a testimoniarlo. Quando si perde il senso del tragico, uno degli effetti è di azzerare il senso del ridicolo e così il ridicolo erompe, e stavolta trionfa fra sindacato e partigiani che si intestano la denuncia del fascismo risalito ai vertici dello Stato, e poi niente, poi si va in pizzeria. Intendiamoci: preferisco così. Meglio una pizza di una P38, specialmente in assenza di fascismo. Ma quando un paese ha perduto sia il senso del tragico sia il senso del ridicolo, temo sia un paese cui non rimane che qualcosa da schiamazzare perché non ha più niente da dire. —