Corriere della Sera, 8 dicembre 2023
Intervista a Filippo, il figlio di Ivan Graziani
Occhiali o chitarra. Ivan Graziani, cantautore scomparso nel 1997 a 51 anni, ce lo ricordiamo tutti attraverso uno di quei due oggetti. «Io papà me lo ricordo di più con la matita e il foglio che con la chitarra, anche se di quelle ce n’era una in ogni stanza. Il disegno era una parte importantissima della sua vita. Con papà non ho mai suonato seriamente, ma ricordo di aver disegnato tantissimo insieme a lui». Filippo Graziani, figlio del cantautore rock scomparso nel 1997, inizia così il viaggio nella memoria.
Che tratto aveva?
«Aveva uno stile da illustratore, disegnava mostri che da bambino mi facevano paura. Amava rappresentare l’assurdo. In vacanza si portava sempre uno sketchbook su cui faceva ritratti. Il tratto era deciso, marcato e spigoloso, quasi nervoso. Era sicuro quando disegnava, gli bastavano pochi segni. Come nella chitarra: assoli decisi con poche note che davano la sensazione di un mondo in modo preciso: le chitarre di papà sono tutte rovinate sul ponte... le trattava male».
E gli occhialoni rossi?
«Non ne aveva bisogno. Ogni tanto prendeva quelli da lettura, ma per il resto erano un oggetto che usava per schermarsi da quello che aveva davanti».
Una foto che le ricorda papà?
«Lo dico con tristezza: ne ho poche. Anche perché una volta non era come oggi coi telefonini... La più iconica è una in cui sono in braccio e ho i suoi occhiali da sole».
Stranezze da artista?
«Una volta è uscito di casa con una batteria ed è tornato con un gommone. Un po’ di estro artistico c’era anche nella vita quotidiana».
Il peso di essere figlio di?
«Al massimo qualche battutina, del resto vivevamo a Novafeltria, un paesino di 5 mila abitanti nella campagna riminese. Ho capito con calma che lavoro facesse. Da abruzzese lui manteneva la vita familiare in una cornice veritiera. Nell’infanzia non ho sentito la differenza. Poi crescendo senti che c’è un occhio di riguardo nei confronti di tuo padre e capisci che rappresenta qualcosa per gli altri. E da lì è partito un processo di riscoperta, passato da me stesso ma soprattutto dagli altri, dagli amici e dai colleghi».
Quando ha scelto che la musica sarebbe stata la sua professione, com’è stato essere figlio d’arte?
«Ho cercato una mia indipendenza allontanandomi dalla sua musica. Andavo nei pub con una band per non usare il cognome: coi Revox facevo cover dei Rolling Stones, con i Carnera stoner pesantissimo, ma alla fine c’era sempre qualcuno che chiedeva “Monna Lisa”. Alla fine ci sono venuto a patti e ho iniziato a portare in giro il suo repertorio. Una volta ho suonato con i suoi due musicisti e ho capito che la strada per riempire le sue scarpe era lunga... Nella discografia un po’ di pregiudizio l’ho sentito, ma è comprensibile: è più facile raccontare uno che vien dal nulla rispetto a un figlio d’arte. Nell’ambito musicale invece ho trovato stima da tutti gli artisti, dal metal al rap».
Si dice che Ivan Graziani non sia celebrato quanto si meriterebbe. Lei è d’accordo?
«Non è vero. Mi sembra che qualcuno lo dica per affetto e questo mi fa piacere. Era un cantautore che apprezzi quando senti una somiglianza sentimentale e di spirito con quello che dice, non è uno che ascolti en passant. Chi ascolta papà lo fa perché raccontava storie».
Com’è sentirselo ricordare da quelli che incontra?
«A volte ne hai voglia, a volte no. E ho imparato a farlo capire. C’è chi viene da me come se fossi un medium per arrivare a lui. La cosa più divertente è quando qualcuno si avvicina e ti racconta con sicurezza e assoluta certezza delle cose non vere. Non avete idea di quante Marta che avrebbero ispirato “Lugano addio” ho conosciuto (ride ndr). Una volta una persona era convinta di essere stato collega in Finanza di mio padre, che però non è mai stato nel corpo. Era uno che metteva a proprio agio chi gli stava di fronte. Una volta i tour erano organizzati in modo diverso rispetto a oggi: c’era un ambiente familiare e spesso l’artista finiva a cena a casa di qualcuno. Lui amava la convivialità e sapeva trasformare una cena con qualcuno di appena conosciuto in una chiacchierata con un amico vero. E si divertiva anche a mettere in giro leggende con il suo sense of humour cinico».
Lei ha tenuto vivo il repertorio di suo padre...
«All’inizio non riuscivo a separare il repertorio dall’uomo. Sono due cose divise. Ascolterei Elvis anche se si scoprisse che era una spia filonazista... All’inizio certe cose non riuscivo a cantarle, adesso me le godo e ho la sensazione di non essere solo quando le canto».
Un successo come «Lugano addio» la perseguita?
«Ho un rapporto meraviglioso con quella canzone. Papà è morto nel 1997 e quella canzone è del 1977. Mi sono reso conto di averla cantata più a lungo di quanto non abbia fatto lui. È diventata qualcosa di intimo e mio che riconosco nel mio genitore. È qualcosa che ho dentro, ma non perché l’ho studiata».
Colapesce e Dimartino nel loro album hanno completato un inedito e duettato con la voce di suo padre. E a gennaio esce un disco di inediti...
«Avevamo provini che giravano da un pezzo in casa, ma c’è voluto tempo per maturare l’idea e trovare otto canzoni per costruire un album. Il materiale era su delle cassette Adat, un supporto su nastro digitale ormai scomparso. Mio fratello maggiore, Tommaso, ha comprato un macchinario rotto su eBay e lo abbiamo fatto riparare, ma dovevamo comunque tenere fermo il bottone play con una penna Bic. Erano provini a volte incompleti sui quali abbiamo lavorato sulla scia di quello che esisteva, cercando di mantenere l’intenzione. Uscirà per Numero 1, etichetta per la quale mio padre ha pubblicato tanti album. Si chiude un cerchio».
Come è stato lavorare su quello che papà aveva fatto?
«Mi sono dovuto autoconvincere ad arrangiare un disco di papà: ho sentito una grossa responsabilità. Come famiglia abbiamo sempre lavorato con l’obiettivo di preservare l’eredità artistica. Mi spaventava quindi metterci le mani. Non volevo mettere qualcosa negli arrangiamenti che a lui non sarebbe piaciuto. Mi sono finalmente sentito pronto».
«Per gli amici» sarà il titolo: ne aveva tanti?
«Il titolo rispecchia quello che ho sentito dentro alle canzoni: si sentivano voci di gente che parla, amici che passavano a trovarlo, lo studio era un crocevia. Io sono cresciuto in braccio ai discografici. A volte portava a casa personaggi strani da cui poi prendeva ispirazione per le canzoni. L’Attilio che appare in “Limiti” era un architetto con le stesse battaglie interiori che erano nel testo».
Renato Zero, un amico vero...
«Mi ricordo quando veniva a casa con una Bentley bianca enorme... Sì, è stato un vero amico. Appena è nato mio figlio Ludovico, che oggi ha 8 mesi, gli ho mandato la foto. “Evviva! Nella tua famiglia si ritorna a parlare di vita”, mi ha scritto. Quando un artista se ne va si tende a ricordare il fatto che non c’è più. Per i familiari le dinamiche sono le stesse di ogni lutto, ma hai meno possibilità di chiuderti in te stesso e processare il dolore».
Ivan Graziani con l’intelligenza artificiale: le torna?
«Se si tratta di rimettere papà su un palco con un avatar sì. Ma le canzoni sono quelle, non puoi inventarne di nuove».