Corriere della Sera, 8 dicembre 2023
Il successo del «Don Carlo» Tredici minuti di applausi
milano Sotto la «volta nera» del Cinquecento spagnolo bruciano passioni trascinanti, un’amicizia eroica, un amore impossibile in lotta contro la spietatezza del potere, a segnare ieri sera, al teatro alla Scala di Milano, il successo dell’opera inaugurale, «Don Carlo» di Verdi, diretta da Riccardo Chailly, per la regia di Lluís Pasqual. Tredici minuti di applausi finali, con qualche contestazione per la regia; applausi a scena aperta dopo tutte le arie-cardine, applausi in apertura di serata all’indirizzo di Liliana Segre. Due gli interventi sul palco del sovrintendente Meyer, per annunciare che l’Unesco ha decretato «patrimonio immateriale universale» il canto lirico italiano; e l’improvviso problema di salute del basso Michele Pertusi, che con gran classe ha comunque sostenuto tutta la recita, applauditissimo dopo «Ella giammai m’amò».
Alla sua decima «prima» di Sant’Ambrogio, Chailly ha guidato un cast di star internazionali, protagonisti Anna Netrebko (Elisabetta di Valois) e Francesco Meli (Don Carlo), Luca Salsi (Rodrigo, Marchese di Posa), Michele Pertusi (Filippo II) ed Elina Garanca (Principessa d’Eboli). Applausi anche per Jongmin Park, ex allievo dell’Accademia scaligera, qui nella parte del Grande Inquisitore per una sostituzione degli ultimi giorni.
Le scene di Daniel Bianco e i costumi del premio Oscar Franca Squarciapino hanno immerso il dramma tratto da Schiller in un intreccio di rinvii storici e tratti simbolici: da un lato, velluti neri e gorgiere bianchissime, come in quadro di Rembrandt; dall’altro, ricorsiva allegoria come di un dominio inaccessibile, un’alta torre color alabastro, un cilindro rotante, aperto sulle scene corali o del dissidio politico, chiuso nei momenti di confessione/conflitto più intimi.
Così, è al lume delle fiaccole, nel cupo Convento di San Giusto, davanti a una sontuosa cancellata barocca, che Don Carlo piange il suo amore perduto. A contrasto, ecco apparire la grande torre del potere: è contro questa rocca incombente che sembrano infrangersi le aspirazioni più pure, una passione irrealizzabile, una virile fraternità pronta al sacrificio estremo. La rocca-cilindro si apre e svela, con luci radenti, l’effimera festa della corte spagnola, le dame in nero assoluto, il lampo dei nani-danzatori in rosso e oro. Il cilindro si chiude per mostrare solo in trasparenza «i giardin della regina»; si apre, svelando il cuore di tenebra del potere, il re con i suoi armigeri corazzati e incappucciati.
O, dopo l’esplosione del coro «Spuntato ecco il dì d’esultanza», per svelare un altro ganglio nefasto: alla cerimonia dell’autodafé, davanti a una misteriosa struttura grigia, intreccio di scale e praticabili, a mezza via tra catafalco e patibolo, trascorrono i frati, gli armigeri e i condannati a morte, incappucciati e trascinati a forza per il collo, seminudi. Come primo colpo di scena, la struttura si rivela il retro di un impressionante «retablo» d’oro, un altissimo polittico di tavole devozionali, nella cui nicchia centrale campeggia statuario l’imperatore. E davanti al quale si accendono fiamme vere, il «rogo punitor» degli eretici. Nel finale, torna l’imponente cancellata, sfondo all’addio di Carlo ad Elisabetta. Dopo l’ultimo bacio, l’ultimo coup de theatre: sincrono al misterioso Frate (Huanhong Li) che si leva bianchissimo dal sepolcro, Carlo, avvinghiato alla statua dell’antenato Carlo V, scompare nel nero di un abisso, fulmineo come il tramonto delle sue speranze.