La Stampa, 8 dicembre 2023
Il Santos retrocesso in Serie B
Due funerali in un anno sono tanti da reggere e le strade di Santos ne portano i segni: vanno a fuoco e infiammano un Brasile che non riesce più a gestire le emozioni, travolto da troppe crisi.
Lo scorso dicembre moriva Pelé, il simbolo di un Paese e il tesoro di una città e ora la squadra con cui lui ha fatto la storia retrocede in serie B per la prima volta, un tonfo a cui i tifosi avrebbero dovuto essere preparati, ma la maglia restava comunque un sogno e a quelli ci si appende. Centoundici anni tra le migliori e ora giù, a precipizio, lontano da tutto quel conta. Il club che negli Anni Cinquanta e Sessanta, con Pelé, ha vinto sei campionati, due Coppe Libertadores e due Intercontinentali, da numerosissime stagioni affronta una crisi economica dopo l’altra e flirta con l’abisso. Si è sempre salvato grazie alla sua accademia che ha prodotto ovviamente Pelé, Neymar, ma pure Robinho e Diego, protagonisti del titolo nazionale del 2002 oltre agli juventini Danilo e Alex Sandro (non costruito in casa), con loro è arrivata l’ultima Libertadores (2011) e anche Rodrygo, ora al Real Madrid, altro nome che ha garantito il bilancio.Il Santos ha sempre saputo esaltare il talento: lasciarlo germogliare, farlo brillare fino in Europa per venderlo in cambio di stabilità e futuro. Solo Pelé ha fatto del Santos la base. Il passaggio più eclatante è quella di Neymar, corteggiato fin da bambino, nutrito a Santos e leggenda, ceduto al Barcellona nel 2013, quando il giocatore aveva 21 anni, per una ventina di milioni. Peccato che i blaugrana ne avessero pagati 80, gli altri 60 a una compagnia privata che aveva acquisito i diritti del cartellino molto prima. Affari torbidi consegnati più volte ai tribunali e a ogni grado di giudizio il Santos ha sperato in un risarcimento milionario che non è mai arrivato a salvarlo. La causa si è chiusa nel 2020, da lì il tracollo.
Il Santos ha retto tra i colossi per più di un secolo, un’impresa non solo calcistica. Il Brasile ragiona intorno a 12 grandi squadre distribuite sul territorio, potenze che definiscono la spina dorsale della nazione: Rio de Janeiro (Flamengo, Fluminense, Botafogo, Vasco da Gama), Sao Paulo (Corinthians, Sao Paulo, Palmeiras, Santos), Belo Horizonte (Atletico Mineiro, Cruzeiro) e Porto Alegre (Gremio, Internacional). E poi il Santos, O Peixe, il pesce, per una città portuale a un’ora di auto da Sao Paulo, ai margini degli affari importanti, degli smerci pesanti, del turismo vero.
Santos vive di mare e di calcio. Pelé ha garantito un’orbita e quando lui si è spento la città e la squadra sono uscite dal centro di gravità. La retrocessione è già stata vicina, scampata, magari nelle ultime giornate. Sopravviveva ancora la sensazione di poter resistere e persino l’ultima partita, prima di trasformarsi in fallimento, sarebbe potuta bastare se non l’avessero persa. Santos non era pronta, il Santos non ci aveva mai pensato seriamente: l’evidente rischio era lì da vedere, però tutti hanno guardato altrove e, al fischio finale, l’incredulità si è fatta violenza. Il Brasile intero ormai cede di continuo ai più devastanti istinti. Fuoco per le strade, colonne di fumo, cassoni e auto incendiate, saracinesche divelte, assalti urbani che non hanno giustificazione eppure sono una foto già vista.
Il Paese si consegna alle illusioni, al governo di Bolsonaro come al ritorno di Lula e poi precipita nella realtà di un’economia distrutta, di una corruzione senza fondo. Il calcio è stato il falso punto di riferimento fino ai Mondiali del 2014, poi i Giochi del 2016 ottenuti apposta per distrarre e spremere altri soldi inesistenti. Il Santos si è comportato allo stesso modo, si è votato a un’idea basata sul nulla: ha creduto di poter crescere un altro Neymar prima di sciogliersi, senza mai confrontarsi con la realtà che ora gli arriva addossa. L’ennesimo risveglio brusco di un Brasile che ancora crede di essere salvato dal pallone pure quando non gira più da un pezzo.