la Repubblica, 7 dicembre 2023
La storia d’Italia che correva a sei zampe
Settant’anni fa, dopo una lunga battaglia politica, Enrico Mattei riusciva nell’opera di rilanciare l’industria italiana degli idrocarburi. Nel 1953 viene fondata l’Eni, un gigante di Stato nuovo di zecca, pilastro nascente dell’economia pubblica che affianca l’Agip, destinato a finire incorporato. I prodromi per quella che diventerà la società dei consumi ci sono già tutti, e uno dei media più pervasivi della comunicazione di massa è senz’altro la pubblicità. Mattei lo sa, cavalca la corrente e arriva preparato all’appuntamento: un anno prima infatti aveva indetto un concorso per scegliere il nuovo simbolo per l’avvento della sua nuova creatura.
«Tra i tanti, si innamora del disegno di un cane a sei zampe che sputa fuoco. Secondo lui rappresenta sia l’Eni che l’Italia, cioè lo sviluppo economico e un paese piccolo, sì, ma ricchissimo di storia e dalle grandi potenzialità», racconta Vanni Codeluppi, sociologo e docente di Sociologia dei consumi all’università Iulm di Milano. «La grafica ricorda lo stile medievale dei gonfaloni, richiama il nostro passato culturale. E il cane, un animale di taglia mediamente piccola, qui hasei zampe che indicano la sua volontà rampante». Il successo è immediato e la piccola fiera è ancora oggi in sella al marchio, che da allora ha sempre puntato molto sulle campagne pubblicitarie coinvolgendo nomi illustri dell’advertising da Bob Noorda a Hervé Morvan.
«La pubblicità fa ricorso ai modelli che la società produce a livello collettivo, ad un linguaggio che si abbevera nella cultura del consumatore per cercare di costruirci un rapporto, soprattutto di identificazione», spiega Codeluppi. E se Mattei le riserva un interesse particolare, è perché sta guardando il futuro: il 1953 è l’anno in cui le immatricolazioni automobilistiche raddoppiano salendo da 112 a 253 mila, in una manciata di anni sulle strade italiane circoleranno più di due milioni di mezzi. La “democrazia del benessere”, come la definiva Umberto Eco, è alle porte, e bisogna conquistare la sua attenzione. In quel periodo l’Eni si concentra molto anche sui colori, i manifesti brillano di toni accesi, sgargianti, d’assalto. «Il colore è sempre stato un elemento importante nelle affiches fin dalla seconda metà dell’Ottocento. Artisti come Toulouse Lautrec o Alphonse Mucha, quando vengono cooptati dalla pubblicità fanno un grande uso dei cromatismi perché sono più efficaci, risaltano di più del bianco e nero che ad esempio propone la stampa sui quotidiani», continua il sociologo. E nel periodo della grande espansione di massa post bellico, dopo che la guerra ha rallentato tutto, la rinascita deve e vuole brillare. Le réclame seguono l’onda, il cambiamento storico, si appropriano come diceva Codeluppi dei modelli socio-culturali e con l’arrivo degli anni Sessanta, in pieno boom economico, si rivolgono alla realtà. Il disegno passa in secondo piano, scalzato dall’immagine fotografica che diventa più importante, consente una maggiore immedesimazione nei prodotti anche a scapito dei colori, che ora vengono corretti, sfumati per risultare più realistici. Mutano anche i protagonisti: la donna conquista una centralità maggiore, nelle campagne dell’Eni la vediamo al volante, mentre cambia l’olio.
Con il decennio successivo però, il periodo dorato del boom subisce una battuta d’arresto a causa della crisi petrolifera e della forte conflittualità sociale che infiamma l’Occidente. «Gli anni Settanta saranno un momento di grande trasformazione, la premessa per tutto quello che verrà dopo sia per la corposa riorganizzazione del modello industriale con l’arrivo dei primi computer, che naturalmente per l’impatto sociale» spiega ancora il sociologo. Si fanno largo nuove forme mediatiche, arrivano le radio e le tv private, ovvero centinaia di nuovi strumenti in grado di dare voce a una pletora di persone; ad aziende grandi e soprattutto piccole che sfruttano una nuova ribalta. Incuneandosi in un’epoca di forte tensione, dove nasce per la prima volta anche un’idea critica del consumo. E la pubblicità tiene il passo, iniziando a preferire un linguaggio quasi esclusivamente visivo, emozionale, mettendo in secondo piano le parole, o utilizzandole in modo sempre più succinto e mirato. La spinta verso l’emancipazione delle donne ad esempio venne riproposta riecheggiando gli slogan in voga: «Né streghe né madonne, si leggeva in uno dei manifesti di una nota linea d’abbigliamento di quel periodo», ricorda Codeluppi, «mentre l’agenzia di Emanuele Pirella si attirava gli strali della chiesa – e la censura della magistratura – usando il primo piano di un sedere femminile fotografato da Oliviero Toscani, e fasciato appena da un paio di hot pants marca Jesus con la scritta: “Chi mi ama mi segua”». È invece Raffaella Carrà a occhieggiare maliziosa dai manifesti dell’Eni. Allora ebbero un effetto dirompente, e se oggi si parlerebbe dimercificazione del corpo femminile, per l’epoca segnarono una rottura con la morale comune.
Il salto negli anni Ottanta e l’inizio di una nuova espansione economica segna l’avvento dell’era televisiva, il piccolo schermo diventa il nuovo medium per eccellenza dove esplodono gli spot pubblicitari. Nei loro 30 secondi si punta tutto sulla ricerca delle emozioni, non c’è tempo per riflettere, e forse è meglio per non entrare in conflitto con l’eredità critica dei Settanta che ancora alligna.
La televisione è ormai lo strumento principale della comunicazione, «perché riesce a parlare con la collettività nel suo insieme. Ha un primato che neanche il web poi sarà in grado di toglierle: il digitale frammenta, raccoglie dati per personalizzare i messaggi, non è condiviso dalla pluralità. Online è più difficile che uno spot diventi virale», commenta il sociologo. Un fenomeno, spiega, che si riallaccia alla frammentazione sociale avviata dagli anni Settanta, perché oggi non possiamo più parlare di società di massa ma solo di postmodernismo. Dove a fare incetta di pubblicità sono i social come Facebook, con un ritorno economico che forse si riverbera di più nei loro fatturati.