la Repubblica, 7 dicembre 2023
Questi dipinti non li avete mai visti
Il tesoro ritrovato. Potrà essere questo il titolo della più importante scoperta artistica degli ultimi anni, avvenuta a Roma il 23 marzo scorso, ma raccontata solo qui per la prima volta suRepubblica.
Durante il restauro di un antico palazzo del centro storico, nel corso del delicatissimo lavoro che in gergo si chiama “descialbo” (ovvero la rimozione dell’intonaco), dal muro di una disadorna sala a pianterreno, rigata da antiestetici tubi idraulici e triste come i luoghi non usati da nessuno, sono apparse a Carmine Brucale tracce di verde. Poi dei riccioli, e un volto. C’era un’immagine – là sotto.
Era prevedibile. Tuttavia non capita quasi mai. Quante delusioni hanno riservato i sondaggi a campione di pareti sotto le quali dovevano nascondersi capolavori perduti come laBattaglia di Anghiari di Leonardo. Ma il responsabile capo del progetto, il restauratore e scrittore Antonio Forcellino, sa che la fortuna va invitata. Vincente è stata la scelta della Soprintendenza di effettuare una estesa campagna di saggi stratigrafici per verificare la presenza di eventuali decorazioni. Il descialbo integrale della parete, finanziato dalla proprietà, ha permesso alla pittura sottostante di emergere alla luce.
Siamo al Governo Vecchio, civico 39. Un toponimo che a Roma – per chi era adulto negli anni ’70 del Novecento – significa donna, vita, libertà. Le femministe del Movimento per la Liberazione della Donna occuparono infatti nel 1976 il palazzo rinascimentale già negli anni ’30 sede della Pretura e poi abbandonato e vi insediarono la Casa della Donna, con consultorio e centro anti-violenza. Quasi nessuno ricordava che il nome della strada faceva riferimento al “Governo vecchio” di Roma, poiché fra il 1624 e il 1755 lì si trovava la sede del Governatore della città. Dopo lo sfratto delle donne nel 1984, quel palazzo (anzi, il dedalo di costruzioni che lo formano) è diventato – per una complicata sequela di cause e sentenze che solo di recente lo hanno restituito ai legittimi proprietari, i quali hanno potuto avviare finalmente i lavori di recupero – una ferita nel cuore di Roma. Un portone sbarrato da una catena, impenetrabile. Imposte fatiscenti, crepe, fuligginoso il travertino della facciata. Un buco nero. Io non avevo mai varcato quella soglia.
Eppure il nome inganna. La nostra storia è più antica. Il palazzo è stato costruito fra il 1472 e il 1480 incorporando una serie di edifici medievali sulla via Recta o Pontificalis (univa il Laterano al Vaticano), da un cardinale di Forlì, Stefano Nardini, già condottiero e uomo d’armi, poi dottore in legge, umanista eruditissimo, bibliofilo, nunzio apostolico, arcivescovo di Milano, commissario dell’Urbe e infine stretto collaboratore di Sisto IV (il Papa che avviò il rinnovamento urbanistico di Roma in vista del Giubileo del 1475 e ricostruì e fece decorare la cappella del Palazzo Apostolico poi detta Sistina). La residenza doveva essere splendida, per attestare il suo status alla curia, ma Nardini la godette per pochissimo, poiché morì nel 1484, dopo aver mancato l’elezione a Papa. Nel testamento la destinò a collegio per studenti poveri. Maschi, destinati a specializzarsi in teologia. Ma l’Arciconfraternita del SS. Salvatore al Sancta Sanctorum ne affittava qualche porzione ai cardinali. Secondo Gregorovius, ci aveva abitato Rodrigo Borgia, prima di diventare papa Alessandro VI.
L’affresco – monocromo a verde –occupa le due campate della parete sud. La Sala delle Colonne – così detta per le due possenti colonne di granito grigiorosa che si ergono al suo centro – era allora un loggiato aperto: costituiva l’ingresso monumentale al complesso di edifici, cortili e chiostri retrostanti. Raffigura un banchetto. La tavola è parallela al piano dell’opera, come nel Cenacolodi Leonardo. Vi partecipano sette eleganti uomini barbuti, che indossano ricche vesti a pieghe e copricapi esotici. Sono infatti orientali.
Il soggetto, biblico, ilConvito di Baldassarre, fino ad allora noto solo nella miniatura, rimase raro (mi vengono in mente un Tintoretto giovanile e un Rembrandt). Il re dei Caldei – seduto a capotavola con la corona in testa – commette sacrilegio: impiega i vasi d’oro e d’argento asportati dal tempio di Gerusalemme da suo padre Nabucodonosor durante la conquista di Israele (il vasellame sta emergendo adesso, perché la paziente rimozione dello scialbo col bisturi è ancora in corso). Il pane è in tavola, le pietanze imbandite nei piatti, un commensale ha infilato la forchetta a due rebbi nello spezzatino. Ma intanto il mozzicone di una mano irrelata scrive in un cartiglio sul muro alle loro spalle: MANE THECHEL PHARES. È la mano di Dio e annuncia la fine del regno di Baldassarre. Le tre parole in aramaico significano infatti «contato, pesato, diviso». Lo spiega Daniele, nel libro eponimo dell’Antico Testamento. Il profeta è raffigurato al di qua del tavolo, in scala più piccola, perché non è presente al momento dell’apparizione della scritta, ma viene chiamato a interpretarla dal re atterrito. E anche questa composizione “in abisso” e in sintesi temporale è affascinante.
Tutto, in quest’opera sbalorditiva, seduce e interroga. Quale pittore l’ha dipinta? La qualità altissima del disegno, l’uso della prospettiva, la sicurezza della mano (non vi è spolvero, né disegno preliminare), rimanda a un maestro di primo piano. Nardini era intrinseco del Papa e a Roma allora operavano nel cantiere della Cappella Sistina pittori del valore di Perugino, Botticelli, Cosimo Rosselli, Ghirlandaio, Pinturicchio. A uno fra loro pensano Daniela Porro, Paolo Castellani, Ilaria Delsere, Olivia Muratore, Maria Milazzi, gli storici dell’arte, architetti e restauratori che mi guidano nella sala. Ma labellezza malinconica e trasognata dei volti ricorda a Forcellino anche il concittadino del cardinale, Melozzo da Forlì, pittore papale al servizio di Sisto IV e impiegato altrove dallo stesso Nardini, le cui ammirate opere romane sono andate per lo più perdute.
E poi: che strano soggetto per l’atrio della propria dimora. Il pittore infatti omette gli altri scandalosi protagonisti della scena: i mille dignitari pagani, le mogli, le concubine. C’era un altro affresco, simmetrico a questo, sulla parete di fronte? Quale è davvero il significato simbolico della scena? Di quale regno Stefano Nardini voleva annunciare la rovina? Dell’impero dei turchi ottomani contro i quali aveva tentato senza fortuna di organizzare una crociata? E che premevano alle porte dell’Italia tanto che nel 1480 massacrarono 800 cristiani a Otranto? E ancora: perché nessuna delle fonti antiche – tantomeno Vasari – vi accenna mai? Nel Cinquecento doveva essere stato già ricoperto. Ma per quale ragione? Eppure, l’intonaco che nasconde protegge e salva. Così accadde a Palazzo Ducale, a Mantova, con gli affreschi del Pisanello ritrovati nel 1969 da Giovanni Paccagnini. Scoperta memorabile, cui la nostra si apparenta.
Insomma, questa è la storia di un tesoro ritrovato, ma la caccia inizia adesso. Storici dell’arte, archivisti, restauratori, epigrafisti, cercheranno di sciogliere i tanti enigmi che l’affresco propone. Il motto di tutti lo ha scelto – involontariamente – uno dei passanti che si prese la libertà di vandalizzarlo con un graffito. Molte date, stemmi, parole, si susseguono infatti ad altezza d’uomo, lungo la parete. Un giorno qualunque, chissà quando, uno studente destinato a farsi prete, innamorato ardente di Dio, della fede o di qualcuno, impugnò lo stilo o un coltellino e incise nell’intonaco la frase che vi si legge ancora: SPERANZA ME CONSUMA.
Sì, ci consuma tutti la speranza di conoscere, di scoprire, di inserire un tassello mancante nella storia dell’arte del Rinascimento. E di capire chi, come, quando, perché e per chi, in quella che sarebbe stata la casa delle donne, annunciava la fine di Babilonia.