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 2023  dicembre 07 Giovedì calendario

Non bisogna aver paura della Ai


Permettetemi di prenderla alla lontana. Ai tempi di Platone, la scrittura, che era di uso corrente ma specialistico (era appannaggio di una casta di scribi, di persone educate e addestrate, e la lettura avveniva di solito in comunità e ad alta voce), incominciò a essere insegnata nelle scuole elementari dell’Attica. Questo generò molta preoccupazione soprattutto presso coloro che avevano delle scuole, perché c’era chi sosteneva che non c’era più bisogno della educazione «vivente»: basta avere imparato l’alfabeto e avere dei libri a disposizione, e il sapere è a portata di mano. Quanto dire che a essere minacciati da questa svolta tecnologica non erano i «colletti blu» (all’epoca del resto inesistenti), ma i «colletti bianchi», anzi, nella fattispecie, i chitoni dei filosofi.
Platone presenta la situazione inventandosi una favola egiziana che Socrate racconta a Fedro. Nel mito si parla di Thot, semidio, che si presenta al faraone Thamus proponendogli una serie di invenzioni, tra cui spicca la scrittura, che Thot magnifica come pharmakon, cioè come rimedio, per la memoria, non più gravata dal peso del ricordare dal momento che basterà ricorrere alle note esterne per ricordare tutto ciò che ci occorre. Il faraone conviene sul fatto che la scrittura è un pharmakon, ma nell’altro senso che questa parola ha in greco: si tratta di un veleno. Convinti di salvare tutto su scritture esterne, gli umani smetteranno di esercitare la memoria vivente, e lo stesso sapere sarà avvelenato, perché sarà affidato a testi che, senza l’assistenza del loro autore, saranno muti o, peggio ancora, esposti a fraintendimenti di ogni sorta.
L’ora della scrittura, così, diviene l’ora del dilettante, dell’autodidatta, del no vax (a un certo punto Socrate chiede a Fedro se si farebbe curare da un medico che si è formato soltanto sui libri, che è pressappoco come chiedersi se sia opportuno curarsi consultando internet). Bene: è della scrittura che stiamo parlando, o della Intelligenza artificiale? Non è proprio questo ciò che si rimprovera a ChatGPT? E, inversamente, che cosa è ChatGPT se non un nuovo apparato che viene ad aggiungersi ai tanti, tutti basati sulla scrittura, che hanno caratterizzato lo sviluppo della civiltà umana? Dare profondità storica al fenomeno, non lasciarsi sedurre dall’idea, ingannevole, che quello che si fa avanti sia un unicum senza precedenti è secondo me un elemento essenziale non solo per non cadere vittime delle tante possibili leggende intorno alla Intelligenza artificiale, ma soprattutto per capire i caratteri e il valore della intelligenza naturale, che continua a essere il vero pilota di tutta la trasformazione.
Facciamolo proprio partendo da Platone, che non solo enuncia un paradosso (la condanna della scrittura avviene per iscritto, e se non ci fosse la scrittura non ne avremmo memoria), ma sostiene che la scrittura esterna non è che la copia manchevole della scrittura interna, del logos, del ragionamento dell’anima che apprende.
Questo ci dice, attraverso la condanna della Intelligenza artificiale, qualcosa di molto importante sulla intelligenza naturale. Un punto di partenza da cui non dobbiamo scostarci per capire un presente che sembra futuristico, imprevedibile e fantascientifico, ma invece ci riconduce a qualcosa di essenziale, che è insieme antico e attuale.
Specificità
Soltanto l’intelligenza naturale può avere un’anima, ossia disporre di paure, attese, emozioni
In effetti, sostenendo che la nostra anima assomiglia a un libro, che è come una tavola scrittoria, Platone ci dice qualcosa di importante sulla nostra mente, che è attrezzata. Ossia non solo è composta in larghissima misura di Intelligenza artificiale, cioè proveniente dall’esterno, da detti, pratiche e abilità che sono apprese e non possiedono alcunché di innato o di interno. In fondo, nel mondo di Platone la nostra mente è sospesa fra due esteriorità, quella del mondo delle idee, a cui attingiamo attraverso la conoscenza, e il mondo delle infinite parti di esperienza che costituiscono la vita della nostra mente e che, di nuovo, sono come scritture che si depongono nell’anima: un «naturale» che ha molto a che fare con l’artificiale, e un «interno» che proviene dall’esterno.
C’è un altro punto che probabilmente per Platone contava di meno, il fatto cioè che, diversamente dalla memoria scritta nei libri, quella che si depone nelle anime è incarnata, inserita in un corpo, o meglio parte di esso. Ora, proprio questo costituisce la vera differenza tra l’Intelligenza artificiale e quella naturale, il fatto cioè che quest’ultima sia in un corpo. Questo, per Platone, era un limite, nel quadro della sua generale squalificazione del sensibile e dell’individuale, ma costituisce, per noi, il motivo per cui l’Intelligenza artificiale non supererà mai quella naturale, non nel senso che la prima non possa essere infinitamente più performante della seconda, ma nel senso che solo l’intelligenza naturale, in quanto dotata di un corpo (che Platone considerava la tomba dell’anima) può effettivamente avere un’anima, ossia disporre di intenzioni, direzioni, paure, attese, volontà e sentimenti. Quello che, in altri termini, fa sì che siamo noi a interrogare ChatGPT e non l’inverso.
Che cosa ci insegna questa storia greco-egizio-americana? Essenzialmente tre cose. Primo, che l’Intelligenza artificiale è vecchia come l’intelligenza naturale e ne condivide la storia e le difficoltà: da che l’umano è umano, ha sempre inventato delle macchine, di volta in volta più sofisticate, ma che è almeno dal tempo della invenzione della scrittura che disponiamo di una Intelligenza artificiale e negoziamo con essa. In questa negoziazione, guardare il passato è il modo migliore per pianificare il futuro.
Secondo, la favola di Platone ci suggerisce che la specificità della intelligenza naturale, non solo umana, ma di ogni vivente, consiste nell’essere situata in un corpo, ed è proprio questo che definisce la differenza essenziale tra naturale e artificiale nell’intelligenza. Ad esempio, la distopia di una Intelligenza artificiale che prende il potere guidata da una cieca volontà di potenza è implausibile, perché le macchine non possiedono volontà, paure, desideri, né meno che mai smanie per il potere, che sono invece tutte caratteristiche degli organismi, dai più semplici ai più sofisticati.
Terzo, che la mente umana, essendo situata in un organismo capace di usare sistematicamente degli apparati tecnici, è una mente attrezzata, ossia si apre a modalità d’uso che come tali sono precluse all’Intelligenza artificiale, che è un attrezzo, mentre la mente umana è capace di usare attrezzi. Sono questi i prolungamenti della mente e del corpo umano che fanno la differenza tra gli animali non umani e l’animale umano, che non per caso è l’unico che abbia inventato quello che (con un nome che nel tempo ha indicato cose diversissime) definiamo «Intelligenza artificiale».