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 2023  dicembre 05 Martedì calendario

A destra senza nostalgia

In nessun altro Paese europeo i fascisti tornarono così presto sulla scena politica come in Italia: come del resto implicitamente consentiva loro una disposizione transitoria della Carta costituzionale, la quale limitava solo alla prima legislatura e solo ai «capi responsabili del regime fascista», non ad altri, il divieto nei loro riguardi di far parte del Parlamento. Sicché già nelle Camere elette nel 1948 essi poterono contare su sei deputati ed un senatore.
È questa la riprova, una delle tante, della profonda diversità storica del fascismo rispetto al nazismo. Della sua intrinseca complessità, certamente antidemocratica, ma irriducibile a quel fenomeno di criminalità politica accoppiata da una spaventosa forma di abdicazione morale collettiva quale fu invece il nazionalsocialismo tedesco. Non a caso la soluzione «morbida» di successione/transizione dal fascismo alla democrazia che ci fu nell’Italia del 1946-48 ricorda abbastanza da vicino quanto avvenne in Spagna alla morte di Franco dopo il 1975. Quasi che i padri costituenti e i capi dell’antifascismo si rendessero ben conto che quella che si era svolta in due fasi in Italia – la prima tra il 1919 e il 1922, e poi dopo un lungo intervallo la seconda nel 1943-45 – non fosse stata altro, in realtà, che una lunga guerra civile. Bisognosa, più che di una Norimberga, di una saggia pacificazione.
Comincia idealmente da qui il serrato saggio di Paolo Macry – La destra italiana. Da Guglielmo Giannini a Giorgia Meloni, Laterza – convincente nel suo sapiente intreccio di fatti e interpretazioni e improntato in ogni pagina a quella sobria valutazione realistica delle cose, che dovrebbe essere la prima caratteristica degli storici. Comincia da qui e dal mito di un’Italia postbellica unita nell’antifascismo: un antifascismo che, se preso sul serio, avrebbe tuttavia rischiato, scrive l’autore, di «mettere al bando il senso comune di un’intera popolazione» composta di vari milioni di qualunquisti e di 11 milioni di monarchici.
Se il rischio fu evitato il merito fu dell’anticomunismo della Democrazia cristiana, che provvide a riassorbire e a recuperare alla democrazia il vasto lascito che il fascismo aveva depositato nel corpo del Paese: un anticomunismo – fatto non meno importante – che tuttavia non fu mai conservatore né clericale per quanto lo consentissero le aspre condizioni dell’epoca.

In sostanza, come si sarà già capito, narrare le vicende della destra serve a Macry per ripercorrere e disegnare tutta la vicenda politica italiana. A cominciare da quel punto di svolta cruciale, da quel vero e proprio spartiacque rappresentato dal luglio 1960, allorché grazie a un deciso intervento della piazza le sinistre riuscirono a imporre alla Dc una conventio ad excludendum, in certo senso analoga a quella che nel 1948 aveva riguardato il Partito comunista e i suoi alleati. Stavolta però ai danni del neofascismo rappresentato in Parlamento dal Movimento sociale, dei cui voti più volte la Democrazia cristiana si era in precedenza servita. È infatti in quel momento – osserva lucidamente il nostro autore – che comincia ad affermarsi in generale l’equivalenza anticomunismo eguale fascismo, che fascismo e antifascismo cominciano a diventare una struttura mentale permanente del Paese, e che di conseguenza nel nostro sistema politico ha inizio il declino politico del centro contrapposto alle due estreme.
Ed è allora che per la destra neofascista inizia una sorta di lunga traversata del deserto della quale sarà protagonista Giorgio Almirante, della cui leadership oggi più che mai appaiono i due limiti principali: da un lato non aver saputo tenere sotto controllo gli uomini di mano della sua parte, i futuri terroristi neri (magari denunciandoli alla giustizia come invece alla fine seppe fare il Partito comunista di Enrico Berlinguer), dall’altro aver fatto di tutto per mettere a tacere quelle varie iniziative e personalità intellettuali – da Marcello Veneziani a Marco Tarchi, da Paolo Isotta a Stenio Solinas, alla casa editrice Rusconi – che tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso cercarono con fresca e spregiudicata intelligenza di costituire un nuovo retroterra ideologico-culturale per una destra capace di lasciarsi finalmente alle spalle il ricordo della marcia su Roma e il trauma del 25 aprile.
Perché ciò avvenisse (cominciasse ad avvenire) bisognò così aspettare l’arrivo di Silvio Berlusconi, del suo messaggio «autoassolutorio, ottimistico, adrenalinico» come si legge nel bellissimo ritratto che gli dedica in una sua pagina Macry. Bisognò aspettare Berlusconi e la dissoluzione del sistema politico della prima Repubblica in seguito alle inchieste di «Mani pulite». Da due milioni circa di voti che aveva raccolto nel 1992, la destra neofascista, ma ormai avviata ad essere postfascista, passò a 5 milioni nel 1994, venendo catapultata d’un balzo dalla squalifica sistemica a essere addirittura forza di governo. A suo modo, conclude il nostro autore, era la sospirata riscossa di un «Paese di destra tendenzialmente maggioritario che era sopravvissuto a una lunga delegittimazione politica e culturale, che poteva nascondersi per decenni in altre opzioni elettorali ma che poi appena possibile riemergeva».

Pur nella cornice di una tale riscossa restava tuttavia irrisolto – e lo resta tuttora – il problema di dare forma a una compiuta e moderna cultura politica conservatrice, di cui la democrazia italiana è orfana ormai da mezzo secolo. È questo il compito vero, un compito in certo senso storico, che attende il governo Meloni, ed è sulla capacità o meno di assolverlo che esso sarà giudicato. Ma questo, come si capisce, non può che essere il tema di un altro libro che qualcun altro a suo tempo sarà chiamato a scrivere.