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 2023  dicembre 05 Martedì calendario

Intervista a Ryuichi Watanabe Tenore

Mai userebbe il flash: gli è bastato il maligno bagliore che oscurò la sua infanzia. Ryuichi Watanabe è nato a Hiroshima, «dove gli effetti della prima bomba atomica erano ancora visibili, a quasi vent’anni di distanza, sui miei compagni di classe che morivano di leucemia». Negli occhi ha un mirino. Si sottopone a colonscopia nel suo Paese e, clic, fotografa la pinza bioptica monouso del medico: «Olympus, ottima ottica». Vede a Tokyo una Mitsubishi Toppo e, clic, la immortala in omaggio al pupazzo di Maria Perego, idolo della sua infanzia, da lui chiamato Toppo Gigio. A volte il samurai diventa un kamikaze: vede a Milano un posto auto disegnato addirittura sulle strisce pedonali poco oltre l’abitazione del ministro Daniela Santanchè e, clic, subito sbatte la prova su Facebook.
Watanabe si considera «un italiano che due volte l’anno va, non torna, in Giappone». Conosce come pochi le macchine fotografiche di ieri e di oggi. Ne possiede 100, inclusa la prima, una Ricoh che i genitori gli regalarono all’ultimo anno di asilo: «La più importante. Ne ho altre quattro identiche, tutte funzionanti». È l’esperto più amato dai grandi fotografi, come Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna, Maurizio Galimberti, Roberto Strano, Ivo Salietti e Tano D’Amico, che vanno a trovarlo per chiacchierarci insieme. Lo stesso facevano Mario Dondero e Letizia Battaglia. Lo stesso fanno gli attori Giacomo Poretti, del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, e Gianfranco Jannuzzo. Il destino era nel nome: Ryu significa immenso, Ichi primo.
Che ci fa un giapponese a Milano?
«Sono un tenore. Arrivai nel 1982, volevo perfezionarmi nel belcanto».
Sognava di esibirsi alla Scala?
«La Scala l’ho avuta per davvero. Dio mi ha ascoltato. Sono sposato in seconde nozze con Maria Laura La Scala. Discende dagli Scaligeri, i signori di Verona».
Dio l’ha ascoltata? È credente?
«No, ma siamo in Italia, dove si scrive “In fede” persino sui contratti».
La sua prima moglie chi è?
«Akemi Yamazaki, cantante e pianista. In Giappone, dove vive, è il nome di un whisky. Abbiamo avuto un figlio, Issei, 34 anni. Il 23 giugno nella Cappella Sistina ha suonato due suite di Bach per papa Francesco, su un violoncello che Arnoldo Mosca Mondadori, nipote dell’editore, ha fatto costruire dai carcerati di Opera con i legni dei barconi di migranti naufragati nel Mediterraneo. C’era anche il mio amico Ludovico Einaudi».
Il suo cavallo di battaglia da tenore?
«Niun mi tema dall’“Otello”. Mi considero verdiano. Ho amato fino alle lacrime Maria Callas. Sento ancora dal cielo la voce dell’immensa Renata Scotto».
Quindi perché rinunciò al canto?
«Quando nacque Issei, era mio dovere di uomo garantirgli una sicurezza economica. Cominciai a trafficare in macchine fotografiche, soprattutto Nikon e Canon. Alla fine è diventato un lavoro».
Avrebbe potuto importare tè e sakè.
«Non sa che i giapponesi nascono con una fotocamera al collo? Il fascino di quest’arte ci fu trasmesso da un veneziano, Felice Beato, che nel 1863 aprì uno studio a Yokohama. Si specializzò nella coloritura delle foto. Per ottenerne una, servivano dalle 8 alle 30 ore di lavoro, tant’è che un’immagine costava un decimo dello stipendio mensile di un operaio. Fra i suoi allievi assunse Kusakabe Kimbei. Beato nel 1877 vendette l’atelier al barone austriaco Raimund von Stillfried, il quale otto anni dopo lo cedette a un garibaldino di Vicenza, Adolfo Farsari, reduce dalla Guerra di secessione americana, combattuta con il 12° Cavalleggeri nordista. Nel 1886 lo studio fu distrutto da un incendio. Farsari lo ricostruì. Alla fine lo lasciò al maestro Kimbei».
Non sapevo che ci fossero due veneti all’origine della fotomania nipponica.
«Nell’Ottocento i giapponesi non amavano la fotografia: temevano che gli rubasse l’anima. Però siamo assai curiosi».
Quali fotocamere usa più volentieri?
«Leica e Rolleiflex 6 per 6 a pozzetto».
Fulvio Roiter diceva: «Lo scatto della Leica non è un rumore: è una musica». Mi confessò che avrebbe ucciso un ufficiale tedesco pur di portargliela via.
«Aveva ragione. La dolcezza del suono nasce dall’eccelsa qualità meccanica».
Si trova il materiale per le Rolleiflex?
«In commercio resteranno per almeno una decina d’anni 30 tipi di pellicole, nei vari formati. Semmai quelle che rischiano di scomparire sono le diapositive. A penalizzare la celluloide è stata l’industria cinematografica, che ne consumava milioni di chilometri: oggi i registi girano solo in digitale. Ma tra i fotoamatori c’è un ritorno alle origini, un po’ come avviene per i dischi in vinile».
Ha visto «Kodachrome»?
«Certo che sì».
Si farebbe accompagnare anche lei da suo figlio a Parsons, in Kansas, nell’ultimo laboratorio che ancora sviluppa le pellicole Kodak, come avviene nel film?
«Sarebbe bellissimo».
Che cosa le piace ritrarre?
«Cominciai dagli amichetti dell’asilo. Molti avevano il viso segnato dagli effetti delle radiazioni patite dai genitori dopo lo scoppio della bomba atomica. Poi passai a treni e locomotive. Adesso sono tornato alle persone, ai volti».
Il suo idolo chi è?
«Era William Eugene Smith, fotografo di guerra di Life. La sua foto Minamata, da cui è stato tratto il film con Johnny Depp, vale La Pietà di Michelangelo».
Che cos’ha la fotografia in comune con il belcanto, per il quale ha studiato?
«Sono uguali: espressioni dell’emotività interiore. Narrano i sentimenti».
La foto alla quale è più affezionato?
«Un ritratto dei miei genitori scattato nel 2017. Mia madre Hiroko morì nel 2019. Mio padre Takashi oggi ha 91 anni, vive a 100 chilometri da Hiroshima».
Ricorda il primo impatto con l’Italia?
«Altroché. Appena sbarcato dall’aereo, il bigliettaio del bus Fiumicino-Roma tentò di fregarmi le lire del resto».
Conosceva qualche parola d’italiano?
«Sì, perché a Tokyo avevo conosciuto Irene Iarocci, docente di lingua antica giapponese all’Università statale dell’Arte. “Sei molto simpatico”, fu la sua prima frase. Prendevo bei voti senza studiare».
Perché conquista i grandi fotografi?
«Per la mia onestà, vorrei sperare. Non li considero clienti, ma fratelli. Gianni Berengo Gardin mi porta spesso a pranzo con la scusa di consegnarmi le sue pellicole da sviluppare. Una volta mi ha telefonato: “Sono stato un po’ male. Ho fatto pipì, poi ho scattato una foto”».
Una necessità vitale.
«Berengo Gardin è inarrivabile. Un pittore che usa l’obiettivo per esporre i fatti. I suoi sono racconti che camminano da soli, come le poesie. Pensi ai due amanti ritratti nel 1959 sotto le Procuratie a Venezia. Allora il bacio in pubblico era vietato, veniva considerato oltraggio al pudore. Gianni infranse il tabù in nome della legge più grande: l’amore».
Quello che lei nutre per il suo amico.
«E che mi legava anche a Mario Dondero. Nel 2014 andai con Berengo Gardin a Roma, alle Terme di Diocleziano, per l’inaugurazione di una delle ultime mostre di questo gigante milanese del fotogiornalismo. Aveva già 86 anni. Ci portò a pranzo con tre amici. A un certo punto, Dondero sparì. “Ma dov’è finito Mario?”. Cercai di qua e di là. Niente. Infine lo trovai in cucina a ritrarre i cuochi. Si scusò: “Non m’importa nulla delle foto. A me piace incontrare la gente e ascoltarla”».
Oggi le macchine fotografiche si usano per realizzare i video.
«Se parla con un diciottenne, si accorgerà che per lui non esiste differenza tra immagini ferme e in movimento».
Gira filmati anche lei?
«No, io non lo faccio».
Non compiange un’umanità che vive per scattarsi selfie e postarli sui social?
«Non la approvo. Ma trovo che sia anche questo un modo per comunicare. È una transizione: chissà che altro arriverà. Del resto, in 4.000 anni di storia i vecchi si sono sempre lamentati dei giovani».
Il digitale ha arricchito oppure impoverito la fotografia?
«Domanda difficile. Di sicuro ha ucciso la Ferrania, che era un’azienda esemplare. Oggi si possono tenere in tasca nel cellulare migliaia di foto, senza spendere nulla per stamparle. È decaduta la ricerca artistica. Ma fra tonnellate di merda, 2 grammi di oro saltano sempre fuori».
Scusi se rimango in tema. Com’è che lei va a farsi le colonscopie in Giappone?
«In una clinica privata di Yamaguchi, per la precisione. È presto detto. Nessuna preparazione nei giorni precedenti. Cena alle 21. Alle 8 ricovero. Beverone di 2 litri da ingurgitare a sorsi. Dopo ogni scarica, un’infermiera controlla la trasparenza delle feci. In due ore, sedazione ed esame. Tutto finito. Totale: 16.420 yen. Cioè 104 euro. A Milano me ne chiedevano 480. E poi in Giappone in qualsiasi bagno c’è il washlet della Toto, igienico water con bidet integrato. Fantastico».
E quando si reca in Francia come fa?
«Non me ne parli. Ci sono tornato per Paris Photo e, in assenza del bidet, mi è toccato ogni volta usare la doccia».
Ma lei è giapponese o italiano?
«Mi sento poco giapponese, ma non del tutto italiano».
Mi risulta che a Tokyo l’anguria Densuke costi fino a 6.000 dollari il chilo.
«L’anguria non so, ma un grappolo d’uva ad agosto l’ho pagato 40 euro».
Cos’ha il Giappone che l’Italia non ha?
«Il rispetto. Mette la persona al primo posto. Gli italiani sono più individualisti. Non dico che sia sbagliato: è che non mi piace. Se decolli da un aeroporto del Giappone, tutti gli addetti alle operazioni di pista s’inchinano e salutano con la mano i passeggeri affacciati ai finestrini. L’ultima volta mi sono commosso».