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 2023  dicembre 05 Martedì calendario

Il satiro scandaloso di Giovanni Comisso

Come spesso accade nelle pagine di Giovanni Comisso, il paesaggio è un personaggio. Ha il suo temperamento, non è inerte. Parla, si agita, respira. Le stagioni. I loro «fremiti». Le colline, «distese una dopo l’altra in fila, tra le montagne e la pianura, lavorate verso mezzogiorno a frutteti e a vigne e verso settentrione ombrose di castagni». Le rive del torrente – «vasto di sabbie, di ghiaioni, di piccole isole fiorite di aurei pennacchi o verdi di salici». Si può ritrovare un luogo e riguardarlo come «un caro volto familiare», dice Comisso: «Ma più ancora come un corpo».
La parola chiave di Cribol, romanzo pubblicato nel 1964 – «corpo» – compare già alla seconda pagina: e il corpo del paesaggio si prepara ad accogliere quello umano del perturbante genius loci che, a guerra finita, sembra sommuovere – con il suo solo esistere, con il corpo appunto – un equilibrio che la comunità si sta sforzando di ricostruire.
A fare da guida morale, c’è un prete agricoltore dallo spirito controriformista: gli abitanti dipendono da lui «con le loro anime sempre timorate dalla morte, con la minaccia della punizione infernale o lusingate dal premio del paradiso». La volontà di «rimettere tutto a posto come prima e più ancora» si concreta in gesti semplici – la ristrutturazione della chiesa – e in un lavoro da confessore e maieuta. Convinto di dovere verificare la tenuta di una necessaria armonia «con la stretta regola cristiana» nella vita privata dei suoi compaesani. A interferire con la tentata restaurazione non c’è solo uno scontento diffuso, o la violenza che esplode nelle forme di una rivoluzione disperata. C’è la comparsa di un giovane selvatico, frequentatore di osterie, prestigiatore e giocatore di carte dallo sguardo lucentissimo e la bocca nervosa. Il suo nome è quasi blasfemo, lo si chiama Cribol per via di quella mezza bestemmia con cui manifesta la sua rabbia quando perde al gioco. La sensualità che emana è come una corrente elettrica. Ribelle, ferina...
«Egli» è il prete, che da Cribol via via si sentirà sfidato. L’altro si arrabatta, beve vino, si accasa per ragioni di comodo, vivendo però nei boschi la sua vita altra e segreta: di satiro con le unghie appuntite, votato alle fantasticherie lussuriose e agli amplessi casuali. La furia, la smania erotica di Cribol è raccontata da Comisso con una libertà che somiglia a uno sfogo e insieme una coscienza letteraria che richiama qualcosa di primitivo. Un’anima della natura e della terra che è, in sostanza, il desiderio.
Forse il Desiderio viene prima del Verbo? Non a caso, in molte pagine lampeggia uno spirito letteralmente dionisiaco, con i suoi riti e le sue ebbrezze. Negli amplessi di Cribol c’è una «disperata vitalità». Quando mostra qualche segno di cedimento, quando inspiegabilmente il corpo si raffredda, turbato dall’impotenza Cribol – pur di recuperare vigore – azzarda la cura insolita suggerita da un pastore: «arrivare ad assorbire il seme umano direttamente da un giovane nel pieno delle sue forze».
Comisso provoca, e si svela come mai altrove. Prova a fondare e anarrare, come un aedo contemporaneo, un suo mito: selvaggio, carico di eros e di mistero. Insegue il suo Cribol che smania di fronte ai corpi di giovani pastori o di bagnanti. Li guarda mordere «famelici e bestiali» pane e salame. Lui pure è schiavo della sua fame: alla prima apparizione nel romanzo, lo si vede nell’atto di chiedere «un poco per scherzo e un poco perché aveva invero fame, le croste del formaggio da grattugiare, di cui andava ghiotto per mangiarle arrostite sulla brace». La voluttà con cui si nutre di seme maschile è legata all’ «incubo dello svanire della sua virilità». O così sosti ene il narratore, che pure indugia impudico sulla sostanza dello sperma – come poche volte è stato fatto nella narrativa italiana. Forse, più tardi, il Pasolini di Petrolio; forse Moravia che – in una pagina del romanzo postumoLa donna leopardo – assimila «il serpentello ondeggiante» del seme emesso in acqua da un personaggio al segreto dell’identità.
«Nora disse: “Guarda, sei tu”, e immerse la mano come a ghermire il diafano filamento. Lorenzo ancora turbato disse, a voce bassa: “Sì, ero io”». C’è, nella scelta dell’imperfetto con cui risponde l’uomo, una indicazione precisa: con l’eiaculazione si disperde l’energia che ci fa essere, che ci fa muovere. Il desiderio che ci tiene vivi. Come a una fonte di vitalità, letteralmente, Cribol vuole abbeverarsi, essere allattato: l’immagine è forte, sfrontata...
La materia di una assimilazione sacramentale – che pure al fondo non restituirà a Cribol la salute sessuale sperata. Ma intanto l’autore ha celebrato la pratica della fellatio come una perturbante festa della vita corporale, proiettandola in un avvolgente quadro pastorale, un teatro dell’eros e dell’abbandono dei sensi in cui agli umori della natura (il corpo del paesaggio) reagiscono gli umori del corpo umano, la sostanza acquosa che si rivela nell’eccitazione. Lasciandolo solo intuire, Comisso travasa in Cribol le proprie pulsioni e le proprie angosce di uomo che invecchia. La cura è impossibile perché restituire pienamente la virilità a Cribol significherebbe fermare il tempo. Riassorbire la distanza che dolorosamente avverte, pur godendo della visione, quando osserva due ragazzi «accosciati lungo alla riva dove l’acqua era bassa», nudi, eccitati, scatenati in «danze libere e fantasiose». Cribol si masturba guardandoli, «rantola» nell’orgasmo e un istante dopo sente il peso dell’esclusione. Loro, eccoli là. «Liberi e felici». E lui? «Non poteva essere con loro come un altro compagno». «Cribol non riusciva a rialzarsi da quella buca, guardava il grande cielo con le nubi sparse che passavano svelte, piccole e frastagliate, mentre l’aria si faceva più fresca. Ebbe un brivido e gli parve benefico, forse quel seme era già penetrato nel suo sangue e stava rinnovandolo». L’illusione di un rinnovamento, il rito sacro e osceno di un’altra comunione, il calice sacramentale e seminale a cui l’escluso dalla giovinezza – dalla potenza – intende abbeverarsi. Nel finale cupo, nella rassegnazione beffarda di Cribol, l’acqua del torrente continua a scorrere come scorre il tempo; lui ormai somiglia a «una fronda squassata dal vento» e vede la morte arrivare.
La sfida è provare a fondare, come un aedo contemporaneo, un mito: selvaggio, carico di eros e di mistero