La Stampa, 5 dicembre 2023
Poca crescita e pochi investimenti Così l’Italia è più fragile e diseguale
Quello che sta per arrivare sarà, naturalmente, un Natale con una forte componente rituale di auguri e di speranze private. Non potrà invece essere un Natale di allegria e di congratulazioni pubbliche per i risultati conseguiti che sono un miscuglio di positività e negatività.
È positivo che – a meno di ulteriori grandi sconvolgimenti internazionali – la “nave Italia” non andrà a fondo ma continuerà a navigare, sia pure in mezzo alla nebbia. E invece negativo che navigherà molto lentamente, con la stiva piena d’acqua che non si riesce a pompar via, senza sapere bene in quale direzione vuole andare e dove sta realmente andando.
Le indicazioni di allarme
Ce lo conferma, dopo una lunga serie di indicazioni da parte di enti internazionali, anche l’Istat nel suo annuale “sguardo” all’anno che sta per finire e a quello che sta per arrivare: un po’ meglio delle previsioni di un anno fa (allora si ipotizzava una crescita del Pil dello 0,4 per cento mentre il dato provvisorio di quest’anno è dello 0,7 per cento) ma senza grandi promesse per l’anno nuovo, quando la crescita appare destinata a rimanere impantanata nello “zero virgola”. Nella stessa, scarsa misura aumenterà anche l’occupazione, il che significa che la produttività non pare destinata a migliorare nel suo complesso anche se, come quasi sempre, non mancherà qualche lodevole eccezione. La riduzione del tasso di disoccupazione e l’aumento delle unità di lavoro non è certo un segnale negativo, ma c’è una spiegazione, purtroppo non entusiasmante: si crea lavoro, ma è “lavoro povero” con retribuzioni basse, in termini di potere d’acquisto. Senza investimenti, continuerà a non esserci un aumento generale di produttività e non si faranno passi decisivi per rimanere in quel gruppo di “paesi ricchi” al quale crediamo di appartenere quasi di diritto.
Scenario grigio, numeri da tempo di guerra
A completare questo scenario grigio c’è la storia di come siamo tornati a questa crescita da lumache: dopo aver recuperato, nel 2021-22, il “buco” dovuto al Covid nel 2020 (-8,9 per cento, un dato da tempi di guerra) il ritmo di crescita è progressivamente rallentato fino a tornare al nostro storico, lentissimo “zero-virgola”. L’economia sembra sulla via di essere sostenuta principalmente dalla spesa delle famiglie per i consumi, mentre invece esportazioni ed investimenti paiono avviati a un deciso rallentamento: questi ultimi, anche per la quasi certa perdita di vivacità del settore delle costruzioni dopo la fine della stagione dei superbonus. Del tutto secondario per i nuovi investimenti sembra poi essere il ruolo dell’amministrazione pubblica, che continua a essere in buona parte caratterizzata da procedure vecchissime e paralizzanti.
Possiamo consolarci per il fatto di essere in buona compagnia: per il 2023 abbiamo fatto marginalmente meglio della media Ue, ma nel 2024 è previsto che le cose vadano un po’ peggio della media dei nostri “soci": siamo, dopotutto, uno dei paesi più “vecchi” in quello che è, in ogni caso, un continente di vecchi.
Nella stessa giornata di ieri, in cui l’Istat metteva nero su bianco la nostra fragilità economica, ha visto la luce un altro importante rapporto annuale, opera della Svimez, l’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno, giunto al suo cinquantesimo anno. Esso pone in luce un altro aspetto che caratterizza la fragilità italiana (e, in misura minore, anche quella europea) ossia la presenza di divari regionali, di tipo sociale, oltre che economico, che non si riassorbono nel tempo, nonostante le enormi risorse dedicate a questo scopo.
Il divario Nord-Sud che cresce
Il divario non solo tra i livelli di reddito ma anche di prospettive di vita tra il Mezzogiorno e il resto dell’Unione europea – con l’eccezione di pochissimi stati – fa sì che siano riprese le migrazioni dei giovani meridionali, questa volta non più tanto verso il vecchio “triangolo industriale” italiano ma verso tutta l’Europa. Negli ultimi vent’anni, il numero di questi giovani migranti viene stimato in circa 800 mila, una cifra quasi paragonabile al numero dei residenti nella città di Napoli.
Di questi, oltre duecentocinquantamila risultano laureati, una perdita molto grave di capitale umano. Il capitale umano, del resto, è male utilizzato, anche per il bassissimo tasso di occupazione femminile e per la presenza industriale limitata a pochi “poli” che hanno molta difficoltà a esprimere le proprie capacità.
Queste due analisi seguono di pochi giorni l’uscita del cinquantasettesimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. Tale Rapporto è rivolto, appunto, non tanto all’economia, che vi fa da sfondo, quanto alla società.
Una mancanza di direzione
Vi viene descritta «una società con molte scie ma nessuno sciame, con una direzione, ma pochi traguardi, in cui i meccanismi di mobilità sociale si sono usurati», una società che non regredisce ma nemmeno matura, come è successo l’estate scorsa a molte specie di frutta. Una società nella quale sono ancora ampiamente presenti lo sforzo e il rischio individuale, ma – si può aggiungere – questo oggi non basta se non vi è, tra l’altro, un’adeguata risposta politica difficile da realizzare – e non solo in Italia – per la mancanza di “scuole”, ossia di esperienze precedenti all’altezza di una situazione carica di novità, a partire da quelle tecnologiche, che non ci aspettavamo.
Per chi ha a cura il futuro del Paese, il “dolce di Natale” è servito: un dolce che non deve essere fatto per festeggiare ma per stimolare, perché gli italiani si rendano conto di luci e ombre e di una fondamentale incertezza, dalla quale, forse, potrebbe davvero partire la rinascita.