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 2023  dicembre 05 Martedì calendario

La mia vita da femmina

Mi ha toccato molto la bella e tremenda testimonianza di Selvaggia Lucarelli, che a parte i dettagli biografici potrei sottoscrivere in pieno.
Che si tratti di patriarcato o di semplice maschilismo, sessismo, cultura dello stupro, spero che la mia testimonianza dia l’idea di quanto una donna debba lottare per non soccombere in questa società.
Anche io a 9 anni ho avuto il mio prete molestatore, che approfittava delle confessioni per estorcermi informazioni diciamo genitali. Sebbene capissi vagamente che mi stava manipolando, mi ci vollero mesi per smettere di andare in parrocchia.
Elementari: al doposcuola, si poteva scegliere tra i corsi di Disegno, Inglese e Economia domestica, al quale ultimo le femmine si iscrissero in massa. Al corso di Inglese ero l’unica alunna: venne chiuso anzitempo, tipo programma della De Girolamo, perché la maestra non poteva trattenersi per una bambina. Mi iscrissi a Disegno. Dopo il corso si doveva rassettare l’aula: le femmine spazzavano per terra, buttavano le cartacce, pulivano i banchi con l’alcol e la carta di giornale, i maschi giocavano a rincorrersi; rimbrottati bonariamente dalla maestra, spostavano qualche banco.
Non so quanti uomini mi abbiano molestata sugli autobus e in metropolitana tra gli 11 e i 25 anni, accostandomi alle spalle per strusciare il pene sui miei glutei. Non erano tutti dropout, alcuni erano placidi padri di famiglia. A volte era impossibile spostarsi perché il bus o il vagone era talmente pieno che non si riusciva a scappare da quella umiliazione. Io e le mie amiche facevamo movimenti infinitesimali per sottrarci, ma il più delle volte pativamo in silenzio, voltandoci per significare al molestatore che lo avevamo sorpreso, ma il vile faceva finta di niente, per riprendere poco dopo. Inutile cercare solidarietà presso gli altri passeggeri. Una volta, dopo un anno di kickboxing, mi girai e diedi al maniaco un cazzotto in faccia: quello voleva rimenarmi, ma un signore lo tenne provvidenzialmente per il braccio (mentre un uomo e una donna tenevano ferma me: non sta bene difendersi da aggressioni sessuali). La mattina uscivo prestissimo per andare a scuola; vedendomi camminare da sola per la strada buia, gli uomini passando suonavano il clacson e mi indirizzavano gesti osceni.
Una sera d’inverno sull’autobus un uomo seduto davanti a me tirò fuori un involto e mi fece vedere una fondina con dentro una pistola. Tirai fuori il cellulare e quello fece uno scatto come per aggredirmi. Corsi verso il conducente, gridando che un uomo mi minacciava: non mi rispose neanche, e ciò naturalmente perché ero una ragazza; fossi stata un ragazzo gli avrei spaccato il vetro divisore, e con la coscienza di ciò lui mi avrebbe risposto eccome (suonai il campanello per scendere; inchiodò alla fermata; mi lasciò in una strada isolata al buio).
Scuole medie (anni 90, non ’50): una prof. metteva voti più alti ai maschi perché da noi femmine si aspettava che fossimo “studiose”, mentre loro se facevano bene “andavano premiati” (uno schema ricorrente nella mia vita: oggi scrittori maschi che compilano temini di imbarazzante banalità vengono premiati da vendite stratosferiche).
Liceo: il prof. di Matematica, un sadico frustrato che terrorizzava la classe, recensiva quotidianamente abbigliamento, forma fisica e taglio di capelli delle ragazzine. A quelle che gli piacevano metteva 8; le altre faticavano a emergere e subivano interrogazioni massacranti.
Università: un esimio professore a ricevimento mi chiese se avevo mai avuto rapporti sessuali per superare esami. Risposi di no, e che non era nei miei progetti. Mi disse dapprima che non sapevo “stare al gioco”, poi che avevo capito male e mi cacciò via. Un altro, molto stimato, a cui inizialmente avevo chiesto la tesi, mi commissionò un saggio che lui avrebbe inserito in un libro a sua firma. Protestai; disse che funzionava così, tutte le sue assistenti facevano così e “ne andavano fiere”. Da giovane cultrice della materia di Antropologia culturale, assistevo il mio docente agli esami: molti studenti ambosessi, prima ancora di sedersi, chiedevano di poter sostenere l’esame col professore o con un mio collega (maschio).
Lavori precari: il mio collega maschio guadagnava sempre più di me a parità di mansioni. In un’agenzia web, il direttore e l’ad affidavano ruoli di responsabilità solo ai maschi; l’unica donna era un’aziendalista rampante e spia.
Colloquio presso una casa editrice: un uomo e una donna mi chiesero se volessi figli: non assumevano donne che potevano restare incinte. Dissi che per stare sicuri potevano prendere uomini; non mi presero. Viceversa una nota conduttrice di Milano, che mi aveva convocato per invitarmi nella sua trasmissione, mi chiese perché non avessi figli, concludendo che ciò “non era normale” e lei alla mia età ne aveva già avuti.
Nel 2015 – scrivevo sul Fatto già da due anni – un collega mi invitò per un caffè e per chiedermi una cosa che gli premeva sapere: ero l’amante del direttore? Quando gli dissi che era un pensiero da miserabili, disse che non capiva perché una sconosciuta come me firmasse editoriali di prima pagina. Quando Renzi era presidente del Consiglio, era evidente che lo criticavo perché mi aveva rifiutato sessualmente (mai incontrato Renzi in vita mia); se criticavo la Boschi, è perché ero “invidiosa di lei”.
Un tale mi chiese di scrivere pezzi sulla sua rivista; gentilmente, rifiutai. Rispose aggressivamente che conosceva Travaglio (forse avrebbe potuto “prestarmi” senza il mio consenso, va’ a sapere). Un po’ meno gentilmente, rifiutai di nuovo. Mi scrisse che ero “una donna acida” e che aveva capito dal mio romanzo che avevo “problemi psicologici” (poco prima mi voleva assumere).
Quando finii nella dozzina dello Strega, un rispettato giurato ammise candidamente di avere “qualche pregiudizio verso i libri scritti da donne”.
Gasparri, da vicepresidente del Senato, su Twitter mi chiamò “segretaria di Travaglio”. Calenda mi diede della “talebana” e siccome risposi a tono mi offrì un “cornetto al Cigno, bar viale Parioli, così ti addolcisci”.
Dopo un mio articolo sui crimini ucraini nel Donbass, tra gli insulti di mattoidi e/o giornalisti (putiniana, pagata in rubli etc.), si appalesò su Twitter un signorino di non so che ente, fan della Nato, il quale mi irrise davanti ai suoi follower quale pivella che non conosceva il significato della parola “metodologia”. Quando feci notare che ciò era improbabile perché ho un Dottorato in Teoria e Ricerca sociale, materia che comprende la Metodologia, replicò che era scorretto appellarsi al principio d’autorità (mentre lui aveva evidentemente problemi col principio di realtà). Un altro utente adattò l’adagio sessista “vai in cucina” sentenziando che non avrei dovuto occuparmi di guerra ma di “baci”: un riferimento al titolo del mio libro, Stradario aggiornato di tutti i miei baci, che lui credeva un romanzo rosa (magari crede anche che Morte a Venezia sia un giallo).
Una pletora di maschi mi spiega tuttora come si scrivono i pezzi, invece di come li scrivo io.
Quando guido, uomini violenti mi tagliano la strada, mi speronano, inchiodano a un centimetro dal mio paraurti; se protesto suonando il clacson, li vedo mimare improperi (come minimo sono mignotta).
In un negozio/studio medico/ristorante, se richiamo l’attenzione mi viene risposto “Un attimo, signora”; se lo fa l’uomo che è con me gli viene detto “Prego, dica pure”.
Come Selvaggia, anche io non esprimo punti di vista ma “polemizzo”; se mi difendo, sono stronza; se puntualizzo, non è perché sono precisa, ma perché rompo i coglioni.