il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2023
I sottopagati della cultura
Giorni campali per la cultura milanese, che domenica ha visto esplodere due diverse proteste: al Museo del Novecento una trentina di lavoratori in appalto si è incatenata nell’atrio per denunciare infime condizioni di lavoro in una giornata di sciopero di tutti i musei civici cittadini, mentre davanti al Teatro Piermarini le ex maschere hanno srotolato uno striscione didascalico: “Scala precaria come il resto dell’Italia”. Loro un lavoro non ce l’hanno più: il contratto è scaduto. Ma se le proteste dei dipendenti precari sembrano accendersi, in questo finale d’anno è un altro il fronte che rischia di creare i problemi più grossi al governo: quello dei lavoratori dello spettacolo, centinaia di migliaia, che si sentono beffati dalla nuova “indennità di discontinuità” uscita dal Consiglio dei ministri del 27 novembre – e già pubblicata in Gazzetta Ufficiale – che sa di tradimento dopo le grandi manifestazioni della stagione 2020-2021. Un mondo culturale in ebollizione.
L’indennità di discontinuità per i lavoratori dello spettacolo era stata promessa al settore, uno dei più colpiti dalla pandemia, dal governo Conte bis. Doveva essere – sulla falsa riga di quel che accade in molti Paesi europei – una misura che permettesse a chi produce arte e spettacoli per lavoro, che svolge quindi un mestiere strutturalmente discontinuo, fatto di giorni di preparazione e giorni di performance, di avere un aiuto e un sussidio proprio per i periodi in cui non si è sul palco: ma si lavora comunque. Ma quel che è uscito dal Cdm è altro: si chiama Fondo per il sostegno economico temporaneo – SET ed è un sostegno, appunto, temporaneo, molto simile a una normale disoccupazione, che non arriverà a tutti i lavoratori, ma solo a quelli che contano nel corso dell’anno oltre 60 giornate lavorative “dichiarate” all’Inps, avendo fatturato però meno di 25 mila euro lordi. Una condizione che, secondo i calcoli del governo, dovrebbe permettere a circa 20.600 persone di fare domanda: su 300 mila lavoratori dello spettacolo. E, quel che è peggio, la misura è arrivata insieme alla cancellazione della già esistente Alas, la disoccupazione per i lavoratori autonomi dello spettacolo. Giovedì a Roma, in un convegno voluto dall’Slc Cgil erano una trentina le associazioni, protagoniste delle proteste del periodo pandemico, a condannare senza mezzi termini la proposta: “Un provvedimento inutile e dannoso e per questo va ritirato”. Proprio quel giorno, il sottosegretario del Mic Gianmarco Mazzi ha diffuso un comunicato ben poco istituzionale: “Qualcuno si lamenta? È curioso. Dopo vent’anni di chiacchiere e inerzia totale da parte di tanti esecutivi, si attacca il primo e unico governo che investe da subito ben 100 milioni di euro per il settore”. Il problema è che a regime i fondi per la misura saranno 40 milioni, per un sostegno una tantum di massimo 2 mila euro l’anno. Per una minoranza.
Il ministero della Cultura solo pochi giorni fa sembrava aver chiuso un altro fronte caldo, quello delle Fondazioni Lirico Sinfoniche che attendevano il rinnovo del contratto da 20 anni e per questo avevano messo in piedi uno sciopero delle Prime, da Trieste a Cagliari: il 1° dicembre è stato firmato uno schema di rinnovo. “Continueremo a lavorare affinché il settore operistico possa ottenere sempre più la stima internazionale che merita” aveva dichiarato Mazzi allora. Ma, seppur lavorare con contratti non rinnovati da oltre un decennio sia una tipicità italiana inaccettabile, i dipendenti diretti delle Fondazioni certo se la passano meno peggio di chi è esternalizzato. Come hanno ricordato all’Italia le giovani “ex maschere” della Scala in protesta, che chiedono il rinnovo del contratto. La loro è una condizione surreale, ma non rara nel settore culturale: la Scala non ha “maschere” assunte, impiega ogni sera 100 maschere con contratti intermittenti brevi, spiega al Fatto Paolo Puglisi della Slc Cgil. Tutti studenti under 25 perché richiesto per l’attivazione del contratto intermittente. Non c’è obbligo di risposta, ma di fatto, come hanno dichiarato ai giornalisti gli ex lavoratori “siamo spinti a rispondere ogni giorno, per ottenere un rinnovo” che però non arriva. Chi ha fatto causa alla Scala, oltre 10 anni fa, è stato stabilizzato, ma la direzione ha ostinatamente proseguito con contratti brevi, di 6 mesi, rinnovati una sola volta.
E quei lavoratori “incatenati alla precarietà” al Museo “dei Novecento euro€ al mese” come recitava lo striscione? Sono i lavoratori in appalto dei Musei civici di Milano, circa 180, in vertenza con il Comune ormai da anni: qualche anno fa prendevano 5 euro lordi l’ora, ora 7, troppo pochi nella città più cara d’Italia. Domenica, circa la metà di loro ha scioperato con il sindacato Usb, per la seconda volta in un mese. Ieri hanno “invaso” il Consiglio comunale di Milano, chiedendo di nuovo di essere ascoltati. “Vi rendete conto di cosa voglia dire vivere con 7-800 euro al mese a Milano?” dice al Fatto Luca Miscioscia, che lavora lì da ormai sette anni. “Prima era ancora peggio, ora almeno abbiamo un sindacato, ma è una situazione vergognosa. Come può il Comune accettare tutto questo?”. Una condizione non dissimile a quella di tanti lavoratori culturali in appalto: ma questi hanno scelto di mostrare alla stampa le loro catene.