il Fatto Quotidiano, 4 dicembre 2023
Gli allegri carnefici dell’Ilva
L’Ilva è moribonda, forse già morta e la pensiamo viva solo per abitudine: dopodomani un altro capitolo del suo lungo funerale si terrà in un cda che vede contrapposti i padroni di Mittal e il socio pubblico Invitalia. Se va bene, daranno un calcio al barattolo: se ne parlerà, ma qui vogliamo ricostruire come siamo arrivati fin qui.
Gli inizi.
La storia dell’Ilva inizia più di cent’anni fa, quella dell’Ilva a Taranto il 9 luglio del 1960, quando viene posata la prima pietra dell’Italsider (Iri), quella che diventerà la più grande acciaieria d’Europa: quattro anni, 400 miliardi di lire e migliaia di ulivi dopo entra in funzione il primo altoforno, nel 1965 il capo dello Stato Giuseppe Saragat inaugura il nuovo impianto. La fabbrica è troppo vicina alla città, in particolare al quartiere Tamburi, ma farla lì costa meno e la città ha fame di lavoro: “L’avremmo costruita pure in centro”, racconterà il sindaco Dc Angelo Monfredi. L’Ilva ha iniziato a inquinare Taranto nel momento in cui è nata: “Un’impresa industriale a partecipazione statale non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sotto vento”, scrisse Antonio Cederna sul Corriere della Sera nel 1971. Il magistrato Franco Sebastio aprì il primo fascicolo sui veleni dell’Italsider nel 1978. Quanto al resto, se l’Ilva ha portato lavoro e prodotto (ottimo) acciaio, Taranto ha creato poco o nulla attorno alla grande fabbrica.
La privatizzazione.
Sarebbe lungo spiegare come e perché, dopo la crisi degli anni 80, si arrivò alla privatizzazione della siderurgia pubblica: certo è che non è una storia di successo. Era il 1995 quando il cda dell’Iri, appena nominato da Silvio Berlusconi, decise di svendere a un amico del premier, Emilio Riva, la più grande acciaieria d’Europa con gli stabilimenti di Genova e Novi Ligure: molto se ne lamentò il concorrente sconfitto, Emilio Lucchini. All’epoca Taranto, sempre inquinando, produceva 8,5 milioni di tonnellate di acciaio all’anno e aveva un margine operativo lordo (Ebitda) di mille miliardi: Riva pagò 2.500 miliardi, 2,5 volte l’Ebitda, un regalo che si ripagò in un paio d’anni e su cui poi chiese pure lo sconto all’Iri perché aveva scoperto che doveva investire per rendere la fabbrica meno inquinante. Non lo fece mai davvero, tanto che fu condannato per inquinamento già nel 2002 e nel 2007.
“Ambiente svenduto”.
È l’inchiesta partita nel 2008 – Sebastio a quel punto è procuratore capo – che nel 2012 portò al clamoroso sequestro “senza facoltà d’uso” degli impianti per “disastro ambientale”: l’Ilva andava spenta nonostante l’anno prima avesse ottenuto dal governo Berlusconi una Autorizzazione integrata ambientale (Aia) che, oltre a elencare le prescrizioni che tutti conoscevano dal 1995, concedeva di aumentare la produzione da 10 a 15 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Come che sia Taranto non chiuderà mai: il governo Monti reagisce al sequestro varando il primo decreto “Salva Ilva”, che consente agli impianti di continuare a produrre (ne seguiranno altri e quello di Matteo Renzi avrà incorporato anche uno “scudo penale”). Sempre nel 2012 l’esecutivo rivede l’Aia dell’anno prima e la approva per legge: prevede “l’ambientalizzazione” della fabbrica in tre anni, ma 11 anni dopo mancano ancora tre anni (ma il limite del 2025 sarà di certo spostato ancora).
Addio ai Riva.
La fabbrica finisce prima commissariata (2013) e poi in amministrazione straordinaria (2015): finisce l’era dei Riva tra le lagne di Confindustria (“Esproprio venezuelano”). Che bilancio dare dei loro 17 anni alla guida? Muscolare nei rapporti coi lavoratori (politica antisindacale, incentivo agli straordinari, il reparto-confino della palazzina Laf) e quanto al resto si può lasciare la parola alla Corte d’assise di Taranto: “Perseguire il profitto e la produzione a ogni costo” anche “in totale spregio di altri beni e valori costituzionalmente tutelati, come l’ambiente e la salute dei cittadini, nonché la dignità e la sicurezza dei lavoratori”. Sono 26 le condanne stabilite dalla sentenza del 2021 (su cui pendono appelli, quello degli ex proprietari ma pure dell’ex governatore Nichi Vendola), secondo cui – col benevolo silenzio di Stato, sindacati e un pezzo della città – la gestione Riva ha risparmiato 8 miliardi che avrebbe dovuto investire per migliorare gli impianti. Negli stessi anni la famiglia accumulava all’estero un ingente patrimonio, sulla cui legittimità però il tribunale di Milano ha dato ragione ai Riva contro la Procura.
La vendita.
Se la privatizzazione fu una svendita, l’uscita dall’amministrazione straordinaria è oscena. Il governo Renzi, ministro Carlo Calenda, mette all’asta Ilva come fosse un appartamento: al miglior offerente. Ma fa anche di peggio: partecipa, tramite Cassa depositi e prestiti, alla cordata “Acciaitalia” con gli indiani di Jindal, Delfin (la cassaforte di Leonardo Del Vecchio) e l’acciaiere Arvedi che sfida il colosso franco-indiano ArcelorMittal col gruppo Marcegaglia (“Am Investco”) e riesce nell’impresa di perdere. Il meccanismo è incredibile. Acciaitalia ha un piano ambientale/industriale che i tecnici di Calenda giudicano indubbiamente migliore (mentre stroncano quello dei rivali), ma offre meno: 1,2 miliardi contro gli 1,8 di Mittal&C, e il prezzo fa metà del punteggio. A quel punto Cdp e Arvedi, inspiegabilmente, si sfilano, ma Jindal e Delfin presentano un rialzo che si avvicina ai 2 miliardi. Invece di accettarlo, Calenda dice che ormai la gara è chiusa (“Non si può fare altrimenti”). Un anno dopo l’Anac, sollecitata dal successore Luigi Di Maio, lo smentirà: la gara era una trattativa privata, in cui i commissari di governo avevano le mani libere da “schemi e vincoli procedimentali” per massimizzare il prezzo e la procedura fu viziata da irregolarità che hanno favorito Mittal e violato la concorrenza. Spettava però al governo decidere lo stop. Giova ricordare che Emma Marcegalia presiedeva Eni, il primo creditore dell’Ilva, il cui rappresentante votò nel comitato creditori a favore di Am Investco invece di astenersi per evitare il conflitto di interessi. L’Ue obbligherà Marcegaglia a uscire e lei venderà a Intesa Sanpaolo (sua grande creditrice e creditrice di Ilva). A luglio 2018 l’Ad di Acciaitalia, Lucia Morselli, indicata da Cdp, dalle pagine di Repubblica lancia accuse velenose spiegando di non aver ancora capito in base a quali criteri Ilva è finita a Mittal, il cui piano era stato bocciato. Un anno e mezzo dopo Mittal la chiama a guidare Ilva per fare la guerra allo Stato silurando Matthieu Jehl, manager esperto colpevole di voler rivedere il piano per aumentare gli investimenti necessari a tenere in piedi il siderurgico. Morselli è ancora lì.
La battaglia.
Calenda lascia senza nemmeno aver chiuso l’accordo con gli indiani sugli esuberi (ne chiedono 6.500). L’accordo si trova con Di Maio, ma nell’estate 2019 la decisione di eliminare lo scudo penale per i vertici dell’impianto è il pretesto con cui Mittal avvia la guerra legale allo Stato. Solo l’apertura di due inchieste, a Milano e Taranto, inducono al dietrofront: lo scudo, in ogni caso, verrà ripristinato dal governo Meloni. La pace viene firmata a dicembre 2020 col ritorno dello Stato in Ilva dopo 25 anni e ad aprile 2021 (al governo c’è Draghi) la pubblica Invitalia entra nel capitale dando vita ad Acciaierie d’Italia. L’accordo è, al solito, un pasticcio: Invitalia mette 400 milioni per avere il 38% del capitale e designare il presidente, Mittal non mette un euro e comanda col 62%, esprimendo l’ad. Nel giro di un anno lo Stato metterà un miliardo per evitare il collasso dell’ex Ilva, Mittal solo 70 milioni convertendo dei crediti. Il piano di decarbonizzazione da 5 miliardi è stato bloccato dalla guerra di Morselli con il socio pubblico rappresentato dal presidente Franco Bernabè, che il mese scorso s’è dimesso. Cinque anni di logoramento non hanno insegnato nulla. Il governo, invece di salire in maggioranza come voleva il ministro Adolfo Urso, ha continuato a trattare affidando la pratica a Raffaele Fitto, che a settembre ha firmato un memorandum segreto con gli indiani che martedì l’hanno stracciato all’assemblea dei soci spiegando che non metteranno un euro degli 1,5 miliardi per salvare la fabbrica.
Lo scenario.
La gestione Mittal ha portato Ilva al collasso: chiuderà il 2023 sotto i 3 milioni di tonnellate di acciaio, record negativo. Oggi lavora con due soli altiforni: uno è a fine vita e l’altro si fermerà per lavori da oggi, due giorni prima del cda decisivo. Il colosso franco indiano ha confermato il sospetto di tutti gli addetti del settore che l’ingresso in Italia serviva solo a eliminare un concorrente. Grazie a Ilva, e ai suoi costi competitivi, il Nord Italia è stato il più grande e profittevole mercato del mondo per consumo procapite di prodotti di acciaio “piani”, dove francesi e tedeschi non sono mai riusciti a penetrare davvero. La scommessa di Mittal era vincente in ogni caso: prendersi i profitti di Ilva senza investire troppo o chiuderla, facendo spazio ai suoi laminati prodotti a Gent o Dunkerque. È andata proprio così. Oggi gli impianti di Genova e Novi Ligure, che dovrebbero trasformare in prodotti finiti l’acciaio dell’Ilva, lavorano ancor meno di Taranto. Dei 5 milioni di tonnellate in meno prodotte rispetto all’epoca Riva, 1,5 se l’è prese Arvedi, il resto Mittal. All’Italia serve un’industria dell’acciaio primario, ma il tempo è scaduto e servono miliardi.