La Stampa, 4 dicembre 2023
Intervista a Roberto Vannacci
Roberto Vannacci, generale e bestsellerista, da ieri è capo di stato maggiore del Comfoter, il comando delle forze operative terrestri. Nell’esercito italiano è un ruolo importante. «Prestigiosissimo», dice lui, contento di «continuare a fare il soldato», cosa che non ha temuto di dover smettere di fare neanche quando, ad agosto scorso, era stato rimosso dalla guida dell’Istituto geografico militare, con l’accusa di aver veicolato contenuti omofobi e xenofobi nel suo libro “Il mondo al contrario”, autopubblicato su Amazon e due mesi dopo uscito per Il Cerchio, casa editrice riminese di stampo cattolico. “Il mondo al contrario” è stato per settimane in testa alle classifiche, tutte, non solo di Amazon, dove oggi è al 23esimo posto: a scalzarlo dal primo, ora conquistato da “Crimini e misteri da risolvere mentre fai la cacca”, è stato “Ciao, io sono Chico”, diario di un cane scritto dal suo padroncino. Il «leale e coraggioso servitore degli italiani», così ha scritto ieri Salvini complimentandosi per la nomina, ha venduto 230 mila copie «ufficiali, perché poi c’è il Pdf piratato, e lì siamo intorno alle 800 mila copie», dice il generale a La Stampa, rispondendo da Viareggio, dove non manca di invitarci, cena inclusa: «Pago io, da vero uomo patriarcale». È il 22 novembre, il corpo di Giulia Cecchettin è stato ritrovato da 4 giorni.
Generale, cosa pensa del minuto di rumore e non di silenzio per il femminicidio di Giulia Cecchettin?
«Prima di tutto non mi piace chiamarlo femminicidio».
Perché?
«Perché chiamare l’omicidio di una donna in modo diverso?».
Perché il femminicidio ha una matrice precisa.
«Quindi l’assassinio di un tabacchino lo chiameremo commercianticidio? La matrice di chi vuole punire chi fa commercio non la vede? C’è in qualsiasi omicidio una matrice precisa».
Pacifico. Individuarla serve a combatterla.
«Si parla da anni di femminicidi, eppure le donne continuano a venire uccise».
Le sembra una buona ragione per smettere di farlo?
«Non dico di smettere, dico che farlo non serve».
Prima di tutto serve a evidenziare che in questo Paese c’è un problema di violenza sulle donne.
«Mi sembra più importante evidenziare che siamo tutti uguali davanti alla violenza».
Stabilire che esiste un tipo preciso di reato non sminuisce gli altri.
«Se l’omicidio di una donna diventa più grave di quello di un uomo, si vìola il principio di applicazione universale della legge».
Il femminicidio non è punito in maniera più grave di un omicidio.
«Sì che lo è».
Su quali basi lo dice?
«Mi sembra che sia così».
Le sembra male. Il femminicidio viene disciplinato come le altre forme di omicidio.
«Mi sono sbagliato. Non sono preparato, io faccio il militare, non l’esperto di diritto. Le dico la mia su questi incessanti omicidi di donne. Chiamiamoli pure femminicidi, va bene, non mi dà fastidio».
Grazie.
«Il paradosso è che pensare che la responsabilità di quella che chiamiamo cultura patriarcale sia di uomini forti e prevaricatori: è il contrario. Sono gli uomini deboli a fare del male alle donne. Noi educhiamo uomini deboli, non uomini forti».
E come sono gli uomini forti?
«Come mio nonno, classe 1898, orfano a 11 anni, in marina a 16, caduto decine di volte e si è sempre rimesso in piedi. Non ha mai alzato un dito su mia nonna e l’ha sempre rispettata. Quelli che ammazzano le donne sono uomini che non sanno stare da soli, che sono dipendenti da loro e che, quando temono di venire abbandonati, perdono la testa. Altro che maschi patriarcali: sono mollaccioni smidollati che abbiamo prodotto noi».
Come?
«Abolendo le punizioni. Se un ragazzo non studia, lo mandi a lavorare invece di fare ricorso al Tar contro i professori che gli mettono 4».
Mi dica qualcosa di meno qualunquista, la prego.
«Le dico che dobbiamo insegnare ai nostri ragazzi, maschi e femmine, che la vita è una lotta e che per andare avanti bisogna avere fiducia nella possibilità di rialzarsi. Molti uomini che ammazzano le compagne, dopo si suicidano: che significa secondo lei?».
Che se perdono il possesso, perdono tutto.
«No. Uomini e donne si ammazzano perché perdono il lavoro; ragazze e ragazzi si suicidano perché vengono bocciati. Il punto non è che i maschi vogliono possedere una donna: è che dipendono da lei. Se perdi una compagna, non ne cerchi un’altra ma ti ammazzi. Se perdi un lavoro, non t’industri per cercarne uno: aspetti il reddito di cittadinanza».
Dell’educazione affettiva nelle scuole cosa pensa?
«Penso che serva l’educazione».
A cosa?
«A essere persone forti, che i diritti se li devono guadagnare».
Sa che il governo ha affidato il piano di educazione affettiva nelle scuole ad Alessandro Amadori, che è stato definito «il nuovo Vannacci»?
«Ah sì? Rido. Non lo conosco. E non critico né avallo le scelte del governo, perché così verrebbe meno la terzietà delle forze armate di cui tanti hanno straparlato quando è uscito il mio libro, nel quale, peraltro, menziono anche un piano di educazione all’affetto. Lo ha letto il mio libro?».
Aspetto il film.
«Male. Sono stato duro con chi mi ha intervistato senza averlo letto».
Non le ho mai detto che avremmo parlato del suo libro.
«Vero. Scusi».
Quand’è stata l’ultima volta che si è scusato, prima di questa?
«Ieri, con mia moglie. Mi sono arrabbiato in maniera spropositata. In una famiglia è normale amministrazione».
Le famiglie normali, come dice lei, non funzionano più.
«Abbiamo fatto di tutto per distruggerle. Abbiamo dato la priorità al lavoro senza elaborare politiche che ci permettessero di occuparci dei nostri figli. Invece del reddito di cittadinanza, diamo quello di maternità. Il primo responsabile dell’educazione è la famiglia, non la scuola: lo dice anche la Costituzione. Ecco perché dobbiamo aiutare chi ne ha una e smetterla di pensare che sostenere le madri sia retrogrado».
È retrogrado pensare che vadano sostenute solo le madri: i figli sono dei genitori. E di una società intera.
«Chiedo il reddito di paternità: io sarei stato a casa con le mie figlie molto volentieri, e a lungo».
Si sente genitore dei ragazzi in giro?
«Mi sento padre dei miei soldati».
Scenderebbe in piazza con le sue figlie contro la violenza sulle donne?
«No, ma possono andarci da sole, se vogliono».
Quanti anni hanno?
«9 e 11».
Non teme che possano essere vittime di violenza di genere?
«No. Sto profondendo tutte le mie energie per crescere due donne forti che siano in grado di difendersi da sole e che sappiano non farsi avvicinare da persone deboli».
E come lo fa?
«Con l’esempio quotidiano di un padre che non molla».
Sì, ma in pratica?
«Le sprono a fare tanto sport, perché lì con i risultati non si può bluffare. Ora fanno triathlon».
Le hanno detto cosa vogliono fare da grandi?
«Le youtuber. E io dico: ok, ma sappiate che dovrete essere le migliori, altrimenti fallirete».
Poverine.
«Qualsiasi cosa facciano, le mie figlie devono emergere: meritocrazia e competitività mandano avanti una società. Guardi la Cina».
In Cina ammazzano le bambine.
«Lasci perdere questo aspetto».
È andato a vedere il film di Paola Cortellesi?
«Lo farò: mi hanno detto che è bellissimo. Guardi che io adoro le donne. Nella mia famiglia sono nati solo maschi per cent’anni e io sono stato l’eccezione: ho avuto due bambine. E ringrazio sempre il giorno che è successo, anche se all’inizio sono rimasto un po’ sbalordito».
Lo ha seguito con attenzione il caso Cecchettin?
«Mi sono fermato ai titoli. Sono molto impegnato. Ma posso immaginare: sono storie tutte uguali, tutte morti annunciate».
Tutte violenze denunciate e sminuite da chi pensa che la violenza di genere non esista.
«Le borseggiatrici da quanto esistono? E però non le possiamo mettere in galera, giusto?».
Non se sono incinte.
«E allora mandiamole sull’altopiano del Montasio a lavorare».
Sul carcere lei non ha alcun dubbio?
«Rende inoffensivo qualcuno che ha commesso un reato: non mi sembra un risultato da poco».
Qual è la cosa che la fa soffrire di più?
«Che l’Italia venga trattata come l’ultima ruota del carro del mondo».
Un dolore più privato?
«Qualsiasi cosa affligga le mie figlie, affligge anche me». —