Corriere della Sera, 4 dicembre 2023
Un invito a guardarsi dentro
«Dentro è la fonte di un bene inesauribile, se sempre vi scaverai» scrisse Marco Aurelio e io invecchiando gli ubbidisco, archeologo di Roma e ormai anche dell’animo. A questo riguardo invito a leggere l’ultimo libro di Vito Mancuso, edito da Garzanti, Non ti manchi mai la gioia : frase di Seneca – nato nello stesso anno di Gesù – che nella quarta di copertina ha la conclusione: «Ti nascerà, se sorgerà in te».
Viviamo nella parte meno ingiusta e più libera del Globo, che aspramente critichiamo ampiamente godendone i benefici, eppure è pervasa da questo male: siamo privi di gioia, come nella trappola di Ovidio – «Né senza di te, né con te riesco a vivere» —: pare il motto dell’Occidente.
Cose mondane che sembrano regalare vita creano dipendenza: il sapere toglie l’ignoranza ma dà la supponenza; l’emancipazione femminile contrasta con la maternità; i cellulari collegano ma riducono brutalmente le parole con le quali pensiamo; ci siamo liberati dalla religio ma la società si è sfaldata; abbiamo ucciso Dio e divinizzato prima lo Stato con la politica e poi l’Io con l’economia e la tecnologia.
Nulla ora è più importante dei desideri del sé, ma numerosi cittadini sono decaduti nella massa ignorante di un’oclocrazia populistica incline alle faziosità e ai capi in voga. Per non dire del contrasto tra economia ed ecologia, identità e accoglienza, intelligenza delle macchine e sapienza umana. Ma la radice di questi problemi è in noi.
Non conserviamo la coscienza intatta se non ci raccogliamo in silenzio per dialogare con noi, che è il solo modo di pensare (Hannah Arendt). Nel frastuono, nella folla e nel da fare frenetico il Sapiens sta diventando Insapiens. Potremo superare le trappole esterne se prima conosciamo quella interna: l’io vorace e furbo che trasforma tutto in strumento e che disprezza l’ambiente, il bene comune e le civiche virtù.
Abbiamo in noi un Vuoto, al tempo stesso non-finito e infinito… È il modo di essere il nostro corpo e anche di non esserlo grazie a emozioni, sentimenti e intelletto che compongono l’Animo. È lo spazio delle mancanze e dei desideri – ignoto agli animali —, che tendiamo a riempire – peggio, a farci riempire —, riportando ogni cosa a noi: in tutti i sensi obesi. Ma la cupidità di questo Vuoto è insaziabile e vuole anche ciò che fa male, per cui siamo instabili, agitati, in fuga da noi, ansiosi di distrarci, autodistruttivi e senza gioia.
La modernità ha valutato positivamente il desiderio tendente all’infinito (pensiamo a Faust). Al contrario Seneca e Ignazio di Loyola insegnavano a reprimere i desideri nella tranquillità e nell’indifferenza. Ma ai loro tempi le religioni infondevano un’energia morale, slanciante e arginante, che le voglie dell’Io hanno soppresso. La modernità ci ha liberati dalla religione ma ci ha intrappolati nella tirannide del desiderio individuale, da Shakespeare definita il «lupo universale» che «divorerà l’intero universo e poi sé stesso».
Oggi l’opprimente Super-Io di Freud è svanito. Al desiderio sfrenato dell’Io-Super, che oggi prevale, più non si accompagna un Qualcosa di superiore e condiviso – un punto fermo orientativo comune —, come fu «l’amore per Dio» di Spinoza. La cupiditas è diventata l’essenza – narcisistica e nichilistica – che ci distrugge e dissolve la societas. Dio, più che ucciso, è stato trasferito in noi dalla volontà di potenza, che è anche la prigione che c’incattivisce e infelicita. Più sentiamo fallire la vita e più farciamo il nostro Vuoto. Possiamo uscire dalla trappola dell’insoddisfazione permanente – riuscendo nella vita – se abbiamo una opzione etica che orienti alla bontà e alla giustizia nella libertà, virtù nelle quali sta l’arte di vivere. Dobbiamo tornare agli antichi, che intendevano la filosofia come un esercizio spirituale per guarire le malattie dell’animo ridandogli la tranquillità. È sbagliato concepire ogni cosa in funzione di sé e usare gli altri come mezzi, come vuole il Credo contemporaneo: Non avrai altro Dio all’infuori dell’Io. È giusto vivere per Qualcosa più grande di noi che possa rilegarci alla natura, alla storia e alla giustizia nella libertà, quindi agli altri e al tutto. «I piaceri non dilettano se non hanno un fine fuori di essi» (Leopardi).
Il trascendimento di sé può essere vissuto religiosamente nell’amore di Dio, o laicamente volgendosi alla società, al bene comune e alla cultura. Così il desiderio permane in noi ma si converte e rapporta alla realtà intesa come volontà non di potenza ma di relazione, tramite la quale completarsi, ricombinando individualità e integralità.
Questo trascendersi nell’idea di Dio e/o nella morale non può più riguardare l’etica eteronoma del vecchio Super-Io, corrispondente alla concezione tradizionale del divino; neppure può consistere nell’Io-Super del successo, della visibilità, della distrazione e del denaro; attiene a quello che Mancuso definisce l’Ultra-Io, che è quanto abbiamo in noi di alto, profondo e al di là dell’Io, ma non del Bene e del Male. Cosi diamo forma, sapore, indipendenza, dignità e salvazione al Vuoto interiore, liberandolo dall’attivismo disordinato e predatore.
L’animo, non infuso da Dio e neppure riducibile al corpo, sta agonizzando in questo secolo, se già non è morto, divorato dal desiderio senza limiti morali, quindi incontinente e imprigionante. Dobbiamo non farcire il nostro Vuoto con cose esteriori ed estranee ma nettarlo e nutrirlo, oculatamente e sobriamente, di cose scelte, vere e buone, facendone il rifugio dell’io e la liberazione dal sé.
Esistette – a mio avviso nell’età micenea – un tempo oltre il Bene e il Male, riflesso negli eroi greci: tanto benefici e fulgidi quanto malefici e mostruosi, ma poi nel Globo, a partire dal VII e dal VI secolo a.C., si scoprì la morale: immensa svolta! Dopo un salto nel tempo, alla fine dell’Ottocento, Nietzsche – tornando ai primordi – ha profetato la morte dell’etica di Socrate e di Cristo, che un secolo dopo si è avverata e ne constatiamo la conseguenza nel decadere della nostra civiltà. Dobbiamo tornare a riflettere sui vizi e le virtù caduti nell’oblio. A tal fine occorre di più, molto di più, rispetto a quanto si va qui e là proponendo: cioè una riconversione educativa e culturale dei princìpi e delle responsabilità – nelle famiglie, nelle scuole e nella società – che scavalchi il furibondo egotismo alla luce del cammino e degli errori dell’umanità. Vasto ma non sconfinato programma nel quale siamo costretti nuovamente a sperare: nulla di marginale e episodico, tutto di essenziale e nodale... È un tornare a mirare alla perfezione del saggio – più che del santo —, sapendo che raramente essa si manifesta ma verso la quale possiamo ancora progredire. Mancuso propone questo breve itinerario per transitare dalla supremazia della forza all’armonia dei rapporti. È saggio, estraneo ai feticci in voga: seguiamolo!