Corriere della Sera, 4 dicembre 2023
Vita da ostaggi
A Hila fa molto strano vedere per i muri di Tel Aviv i manifesti con la sua fotografia: «Ma da quando sono lì?», chiede allo zio, Yair Rotem. «Subito dopo il 7 ottobre, abbiamo riempito le città, le televisioni e i social con i vostri volti. Avevamo solo un obiettivo: riportarvi a casa», risponde lui. Nei cinquanta giorni da ostaggi a Gaza, Hila, 13 anni, sua madre Raya, 54, e l’amica Emily Hand, 9, non avevano nessuna idea di quello che stesse succedendo nel Paese. «Non avevano notizie. Sapevano di essere state rapite da Hamas, ma nient’altro. Dal nulla, mi fanno domande: “Ma il vicino è vivo?”, “Che cosa è successo al compagno di classe?”, “E a casa nostra?”. Io cerco di raccontare tutto con molta cautela, seguendo i consigli degli psicologi», spiega al Corriere Rotem. Risponde da un albergo di Tel Aviv: «Da ieri ci hanno trasferito qui. Nei giorni seguenti la liberazione, siamo stati allo Sheba Hospital».
Quella di Raya e Hila è una storia nella storia. I lori nomi li abbiamo già scritti e letti perché la bambina è stata liberata il 25 novembre senza la madre, che l’ha raggiunta solo cinque giorni dopo: «Sono stati momenti di angoscia. Che cosa avremmo fatto se mia sorella non fosse tornata?», continua. Il 7 ottobre, mamma, figlia e amica sono state catturate nella safe room della loro casa nel kibbutz Be’eri e portate con un pick up dentro la Striscia. L’ultimo messaggio è stato mandato proprio a lui, fratello e zio. Erano le 12.05 di quel sabato mattina: «Ci hanno rapite, ci stanno portando via». Poi, silenzio. Con pudore e delicatezza, Rotem condivide la testimonianza di Raya: «Io non le faccio mai domande, quando se la sente è lei che racconta. Mi ha spiegato che sono sempre state insieme. Il primo giorno sono state portate in un appartamento e nella notte in un altro. Non sa dove si trovassero perché tutti gli spostamenti venivano fatti al buio. Le coprivano gli occhi con dei teli».
Erano chiuse in una stanza con altri ostaggi. A terra c’erano dei materassi. Potevano andare solo in bagno. I miliziani si aggiravano per i corridoi della casa: «Alcuni erano più gentili di altri. Ma non importa, non sopporto la narrazione dei terroristi buoni o cattivi: hanno ucciso e rapito», dice Rotem.
Vivevano in condizioni igieniche precarie. Mancava l’acqua, «per cui tutti i bisogni fisici rimanevano lì. Mia sorella racconta che ogni quattro, cinque giorni portavano un secchio colmo e lo versavano nel water e, a turno, a uno degli ostaggi toccava pulire». Per lavarsi usavano asciugamani bagnati in un pentolino riscaldato con una piccola stufetta a gas. «Sentivano le bombe cadere vicinissime. Un giorno ne è caduta una proprio accanto a loro e le finestre sono saltate via. Avevano paura di morire durante un attacco, o per mano dei miliziani. Avevano sempre paura. Quando cadeva un missile i terroristi dicevano: “Lo sapete che Netanyahu uccide i nostri bambini?”».
Alcuni giorni mangiavano molto poco, è capitato di dover condividere un barattolo di fagioli o di doversi far bastare una bottiglietta da mezzo litro d’acqua per 48 ore. «I terroristi volevano che gli ostaggi parlassero a voce bassa e la notte era vietato anche bisbigliare. Avevano un’ossessione per i pidocchi e ogni giorno chiedevano a mia sorella di controllare che sua figlia ed Emily non li avessero».
Una volta un carceriere ha chiesto a Raya da dove venissero i suoi genitori. «I miei sono nati in Israele, mentre i nonni in Europa», ha risposto lei. «Vedi? Mia madre e mio padre sono di Giaffa e Ashkelon, sono qui da molte più generazioni di voi», ha ribattuto il miliziano. «I giorni passavano lenti, fino a quando hanno capito che le avrebbero liberate», racconta Rotem. «Quelli di Hamas hanno annunciato che sarebbero state rilasciate tutte insieme, ma una mattina hanno chiesto solo a mia nipote Hila e alla sua amica Emily di andare a cambiarsi i vestiti. All’improvviso, le due bambine sono state portate via. Mia sorella si commuove quando racconta quel momento: ha avuto solo il tempo di un abbraccio».
Rotem dice che fisicamente stanno bene, mentre psicologicamente sono a pezzi. Per ora, a tenerle in piedi è la felicità di essere a casa, ma Raya fa fatica a tornare con la mente a Gaza: «Non solo per quello che ha vissuto, ma perché in quell’appartamento ha lasciato altre persone che sono ancora ostaggio di Hamas. Per lei erano diventate come una famiglia».