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 2023  dicembre 04 Lunedì calendario

L’era Milei

Il 10 dicembre inizia l’era di Javier Milei a capo dell’Argentina. Un Paese in difficoltà economiche evidenti. La riforma bandiera del nuovo presidente è sostituire il peso (la moneta in vigore) con il dollaro Usa.
I l prossimo 10 dicembre, in Argentina, comincia la presidenza di Javier Milei. Chi è Milei? Laurea in economia, esperienza professionale in società finanziarie, diventa noto per le sue rissose apparizioni in tv. Riesce a farsi eleggere deputato nel 2021 con la lista Libertad avanza, con le sue teorie anarco-capitaliste ispirate dall’economista Murray Rothbard. Il 19 novembre scorso ha convinto gli elettori offrendo un drastico ridimensionamento dello Stato, «il male assoluto». Ecco il suo programma: cancellazione di 11 ministeri; abolizione della Banca Centrale; vendita delle principali aziende di Stato, come la società petrolifera Ypg o l’istituto di credito Grupo Financiero Galicia; privatizzazione della sanità e della scuola; nessuna misura per contrastare il climate change; via libera al possesso di armi; abolizione della legge sull’aborto; liberalizzazione del mercato degli organi umani, visto che «uomini e donne sono proprietari innanzitutto del proprio corpo». Infine la riforma-bandiera: sostituzione del peso con il dollaro americano.
I numeri dello sfacelo
Nel ballottaggio Milei ha conquistato il 55% dei consensi, ma il suo partito potrà contare solo su 39 seggi sui 257 totali della Camera, e 7 sui 72 del Senato. Sarà, dunque, un presidente senza maggioranza parlamentare. Potrà fare solo alcune cose per decreto, ma per il resto dovrà trattare con i moderati di Insieme per il cambiamento. Certo, il neopresidente, soprannominato El Loco (il matto) fin da ragazzo, potrebbe procedere a colpi di referendum, ma il consenso elettorale non è garantito. Il Paese sembra incamminato verso il decimo default finanziario della sua storia: soffocato da stagflazione, cioè recessione combinata a una furiosa inflazione, oggi al 143%, che impoverisce una larga fetta di argentini, nonostante il non drammatico tasso di disoccupazione (6,6%). Vivono sotto la soglia di povertà 18,3 milioni di persone su 45, mentre il 9,3% degli abitanti non ha neanche i soldi per mangiare. Il debito pubblico, che include un prestito da 44 miliardi dal Fmi, ammonta a 419 miliardi di dollari, pari all’85% sul prodotto interno lordo, un peso sostenibile, se non fosse che oltre la metà è in mani straniere. Il tasso di interesse è arrivato alla strabiliante percentuale del 145%. La vittoria di Milei è maturata in questo sfacelo.
Servono tanti dollari
Per il neo presidente la via d’uscita è chiudere la Banca centrale e ricominciare usando solo dollari. Molti economisti hanno avvertito: attenzione, ciò significa appaltare la politica monetaria alla Federal Reserve americana, e perdere l’opportunità di stampare banconote, immettendo liquidità nel sistema per alimentare la domanda di beni e servizi. Se la «dollarizzazione» riuscisse a mettere in sicurezza stipendi e pensioni, a rilanciare i consumi, a riportare un po’ di ordine nei conti pubblici, certamente in pochi rimpiangerebbero il peso, la moneta locale. Ci sono alcuni precedenti: Panama ha adottato il biglietto verde già nel 1904, ed è andata bene perché ha beneficiato di una crescita economica costante, integrandosi nel circuito americano. Hanno seguito la stessa strada l’Ecuador nel 2000 ed El Salvador nel 2001, ma le loro economie sono rimaste fragili e i loro bilanci pubblici oggi rischiano la bancarotta. L’Ecuador per salvarsi ha addirittura chiesto e ottenuto prestiti dalla Cina. In cambio, nel maggio scorso, ha stretto un accordo di libero scambio con Pechino. Curioso no? Mi affido al dollaro, ma poi ho bisogno del salvataggio cinese. Per l’Argentina il primo problema è che lo Stato non ha abbastanza dollari per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e le pensioni, e la Banca centrale non possiede valuta americana nelle sue riserve. Da dove potrebbero arrivare i dollari necessari per trasformare l’economia argentina? Non dagli scambi commerciali con gli Stati Uniti: la bilancia dei pagamenti con gli Usa (export meno import di beni e servizi) è in deficit di 9,9 miliardi. Escono molti più dollari di quanto ne entrino nel Paese. Milei ha già bussato alla porta del Fondo monetario internazionale, che prima di erogare altre risorse vorrà verificare se davvero ci saranno le riforme, in particolare il taglio del 15% della spesa pubblica. E comunque i dollari del Fmi non basteranno. E allora?
Alla corte di Joe Biden
Milei spera di contare sull’appoggio politico ed economico della Casa Bianca: nei giorni scorsi è volato a Washington per incontrare alcuni funzionari del Tesoro e il capo della sicurezza nazionale Jake Sullivan, stretto collaboratore di Joe Biden. I due hanno discusso di come rafforzare il rapporto tra i rispettivi Paesi. Tutto ciò si tradurrà in una specie di Piano Marshall per l’Argentina? È difficile immaginare che Joe Biden, alle prese con Ucraina e Gaza, possa chiedere al Congresso di stanziare fondi per Buenos Aires. Nel caso di un ritorno di Donald Trump ci sarà una buona intesa (i due simpatizzano), ma gli aiuti finanziari ad altri Stati non fanno parte della dottrina trumpiana. È più probabile invece che la finanza e l’industria statunitensi decidano di acquistare (decidendo pure il prezzo) le aziende di Stato che Milei vuole privatizzare: telecomunicazioni, energia, banche, media, e c’è poi la partita cruciale delle grandi miniere di litio.
Saltano i piani del Brasile
In campagna elettorale ha ripetuto che il primo gennaio 2024 l’Argentina non entrerà, insieme con altri cinque Stati, nel gruppo dei Brics formato da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Il motivo è che uno degli obiettivi dei Brics è proprio quello di contrastare la supremazia del dollaro, usando altre monete per i commerci e per le riserve delle banche centrali. Xi Jinping spinge per lo yuan. Milei che vuole aggrapparsi al dollaro e agli Usa scombina i piani di almeno due Paesi: quelli del presidente brasiliano, Ignacio Lula da Silva, che suggerisce di utilizzare le proprie valute almeno negli scambi tra i Paesi del Brics. E di scambi fra Brasile e Argentina ne corrono parecchi: il Brasile assorbe il 14,3% delle esportazioni argentine (dati Comtrade 2022). È prevedibile un forte contrasto tra i due leader anche nel quadro del Mercosur, il patto di libero scambio tra Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. Il presidente brasiliano vorrebbe ridurre anche qui l’uso del dollaro e, nello stesso tempo, concludere un accordo con la Ue (che sembra vicino); Milei potrebbe spingere per un avvicinamento a Washington. Lula, per altro, presiederà il G20 nel 2024 e il Gruppo dei Brics nel 2025. Due occasioni per guidare l’affrancamento del «grande Sud» dall’influenza americana. Forse Milei non sarà a bordo, ma lo vedremo alla prova dei fatti.
Un freno alle mire cinesi
La mossa del loco è indigesta anche per la Cina, che punta ad estendere la sua influenza sul Sudamerica. Pechino è un cliente vitale per l’economia argentina. Nel 2022 ha acquistato il 92% della produzione di soia e il 57% della carne. Inoltre il governo cinese ha già concesso all’Argentina prestiti per 18 miliardi di dollari. Ma la partita più importante è quella sul litio, la materia prima fondamentale per le batterie delle auto elettriche e per tutti gli apparecchi elettronici. L’Argentina, con Cile e Bolivia, detiene immense riserve del minerale e finora non del tutto sfruttate. Proprio il candidato sconfitto alle elezioni, l’ex ministro Massa, aveva appena concluso un accordo con il gruppo cinese Tibet Summit Resources: investimenti per 1,7 miliardi di dollari, in cambio di 10 mila posti di lavoro nelle miniere e nell’indotto. Nell’area argentina dell’altopiano andino sono già attive diverse aziende cinesi, fra cui la Ganfeng Lithium e la Tsingshan Holding Group. Una collaborazione chiaramente sgradita agli Stati Uniti, che pure sono presenti nei campi minerari argentini con la società Livent Corporation. Ora è lecito chiedersi fino a che punto Milei frenerà i cinesi e favorirà gli americani anche nella corsa al litio. La partita, dove la Ue non tocca palla, è solo all’inizio.