La Stampa, 3 dicembre 2023
Intervista a Laura Morante
Per cantare vittoria è troppo presto: «È difficile dire adesso se qualcosa stia davvero cambiando per le donne. Ci sono movimenti che lì per lì fanno rumore e poi non raggiungono gli obiettivi per cui erano nati. Mi auguro che si vada avanti, che ci siano dei risultati, penso un’intera cultura vada ricreata». Laura Morante ha i toni discreti e decisi di chi sa bene da che parte stare. Non c’è bisogno di alzare la voce, basta un sorriso, una frase, e si capisce subito dove vuole arrivare. Al Tff è apparsa per il gran finale, con il film di Roberto Faenza Folle d’amore in cui interpreta Alda Merini, per recitare i versi della poetessa e per ritirare il premio Fondazione CRT: «È un personaggio che tutti ricordano, molto popolare, era spesso in tv, era una sfida difficile, da panico. Sono arrivata all’ultimo minuto, per sostituire un’altra attrice, non ho avuto molto tempo per prepararmi, ho riletto le sue poesie, ascoltato le sue interviste, la sua voce, il suo modo singolare di parlare. Quando era ispirata, quando scriveva, era straordinariamente lucida, intelligente, sensibile».In che modo sceglie i suoi personaggi?«Gli attori scelgono sempre sulla base di quello che viene loro proposto. Più si va avanti con gli anni meno si sceglie, alle donne succede che, passati i 45 anni, cominciano a diminuire i personaggi interessanti. Posso dire che, tra un ruolo piccolo in un bel film e uno fantastico in un brutto film, scelgo sempre il primo. Preferisco la qualità, poi, certo, se devo pagare l’affitto, magari accetto anche il secondo».C’è una nuova onda di attrici passate dietro la macchina da presa. Lei lo ha fatto molto tempo fa. Pensa che adesso sia diventato più facile?«Ci ho messo sette anni per realizzare il mio primo film da regista, nessuno mi dava ascolto, alla fine infatti l’ho girato in Francia perché in Italia non avevo trovato finanziamenti. Spero che ora qualcosa sia cambiato, ci sono professioni in cui prima le donne erano quasi assenti, mi auguro che succeda così anche con la regia. Ho appena scritto una nuova sceneggiatura con Daniele Costantini, ma, ancora una volta, non ho trovato i finanziamenti, forse non ho gli agganci giusti o forse non sono abbastanza battagliera».Al mestiere d’attrice ha sempre accompagnato battaglie civili come quella in favore di Julian Assange. Pensa che l’obiettivo sarà raggiunto?«Abbiamo organizzato la proiezione di un documentario sul suo caso, il 13 dicembre, a Roma, proprio per cercare di sostenere una causa che ci sembra importante, emblematica. Non parliamo solo della crudeltà nei confronti di Assange, ma anche del segnale preoccupante che la sua situazione diffonde rispetto alla libertà di stampa e di parola. Possiamo illuderci di vivere in democrazia, ma, se non esiste questa libertà, la democrazia muore».Diceva che, per andare avanti nella battaglia contro la violenza sulle donne, bisogna ricreare un intero sistema culturale. Perché?«Sottovalutiamo l’importanza della cultura, la violenza sulle donne esiste nel mondo intero, non solo in Italia, ma certamente il nostro Paese, in modo inspiegabile e autolesionista, ha tolto centralità alla cultura. Da noi c’è stato un terrificante passo indietro, risalente agli anni del berlusconismo che io ho vissuto come un orrore, un salto nella preistoria, proprio per quello che riguarda la percezione della figura femminile. Da quel precipizio bisogna risalire, risorgere, e in questo la funzione della cultura è fondamentale».Sua figlia Eugenia Costantini è attrice e al Tff ha debuttato con il corto Niente. Le fa piacere che abbia scelto questa strada?«Mia figlia vorrebbe fare, con ragione, sia l’attrice che la regista. Mi sembra un po’ troppo intelligente per voler fare solo l’attrice, ama recitare, ma sa anche scrivere sceneggiature e qualche volta abbiamo lavorato insieme, ha talento, mi auguro che faccia tutte queste cose».È l’unica attrice che ha parlato senza peli sulla lingua di Moretti. E la cosa ha fatto sensazione. Come è andata?«Sono un po’ kamikaze. Qualche anno fa è successo che mi abbiano fatto un’intervista perché ero tra gli attori che avevano lavorato con lui e stavano preparando un cofanetto sul suo cinema. Naturalmente ho parlato bene di Nanni, ma senza dover mentire. Di qualità ne ha molte, nessuno può negarlo, poi però, alla fine dell’intervista, sentivo che mancava qualcosa, non si può solo dire bene di Nanni, mi sentivo un’ipocrita, così chiusi il colloquio dicendo “la verità la dirò un’altra volta”. Come sempre la verità è sfumata, c’è il bene e c’è il male, mi esaspera quando sento dire solo cose positive di tutti, finisce che i giudizi finiscano per svalutarsi».Quando le è capitato di sentir parlare solo bene di qualcuno che magari non era poi così perfetto?«Sono stata in giuria con Michael Cimino, eravamo 18 persone, ricordo che era odiato da tutti, poi quando è morto ne ho sentito parlare solo come se fosse un santo».È successo anche con attori?«Sì, per esempio con Harvey Keitel, eravamo sul set di un film A Farewell to Fools, c’era anche Gerard Depardieu. Passava per essere meraviglioso, ma sul set era detestato, si comportava come un mostro. Avevano tutti paura delle sue reazioni, quando si facevano i totali non voleva recitare, si rifiutava di dire le battute perché voleva che il regista montasse solo il suo primo piano. Mandarono me a dirgli che non poteva comportarsi così».