La Stampa, 3 dicembre 2023
Vivo nel cuore della storia
Riceve il Raymond Chandler Award dal “Noir in Festival” proprio nel giorno del suo compleanno, Daniel Pennac: significativo che questo importante riconoscimento, nato nel 1988 e in passato assegnato ad autori come Le Carré, Connelly, Saviano, Grisham e Camilleri, arrivi non solo in una giornata così particolare, ma proprio nell’anno in cui con Capolinea Malaussène (traduzione di Yasmina Melaouah, ed. Feltrinelli) giunge a conclusione una saga noir che era iniziata (subito con gran successo) nel 1985. Incentrata sulla figura particolarissima del capro espiatorio Benjamin Malaussène, ne racconta la vita complicata e le mille traversie (con annessi morti ammazzati), la sterminata famiglia e il quartiere di Parigi dove vivono, Belleville, altro microcosmo problematico ma allegro.
Classe 1944, nato a Casablanca, dopo avere girato il mondo a un certo punto della sua vita Pennac approda proprio in questo quartiere nel 1969. «Prima – ricorda – avevo vissuto per pochi giorni nel V arrondissement (quello della Sorbona e degli studenti, degli artisti e del Quartiere Latino, ndr): ma quando uscivo mi pareva di incontrare solo altri me stesso. Trasferirmi nel XX arrondissement invece mi corrispondeva, era il mio ideale: in un fazzoletto di terra erano concentrate tutte le razze, le culture, le cucine e le divinità più strampalate esistenti al mondo». Non l’ha più lasciato, e – appunto – ci ha pure ambientato il suo ciclo di romanzi più noto (è autore molto prolifico, Pennac, di decine di altre opere, saggi, libri per l’infanzia, testi teatrali, romanzi non di genere).
Non arriva un po’ tardi questo premio?
«Mi invitavano, non potevo (piega la testa, sorride, si vede che un po’ si schermisce, ndr). Colpa mia, che non potevo mai, sempre troppo pieno di impegni. Il momento è perfetto. Confermo infatti che questo è proprio l’ultimo Malaussène».
Come mai? Nessun ripensamento possibile?
«L’ho già fatto (la saga ha avuto una lunga sospensione tra il 1998 e il 2017, ndr). Ma ora ho altre voglie di scrittura, altri temi che premono. In questo momento, per esempio, mi preme molto la mia attività teatrale, che davvero è tutta un’altra vita».
Si può dire che lei sia figlio della cultura del 1968, del Maggio francese?
«Si può dire, ma quell’anno non ho fatto grandi cose o memorabili. Ero innamorato e non sono uscito molto dal letto. L’anno dopo sarei diventato professore e mi sarei trasferito a vivere a Belleville».
Cosa l’attira di questo quartiere da esserci andato a vivere e da averlo reso non sfondo ma protagonista dei suoi romanzi?
«Era il vecchio quartiere della Comune e della sua Rivoluzione, in seguito investito da continue ondate migratorie: gli ebrei in fuga dai pogrom, gli armeni perseguitati dai turchi... Poi, quando la Francia ha chiuso con le colonie, sono arrivati marocchini, algerini, tunisini. E infine anche gli asiatici. Tutti attratti dal fatto che è il più economico a Parigi. È per via di queste stratificazioni che Belleville è diventato il Sud assoluto del mondo, e un concentrato della Storia».
Quanto è cambiato in 40 anni di odi crescenti e di tensioni sempre maggiori tra i popoli?
«Quasi per niente. Le conseguenze del conflitto israelo-palestinese non sono mai arrivate fin qui. E neppure quelle del conflitto serbo-bosniaco. Belleville ha saputo mantenere un piccolo equilibrio miracoloso».
La ragione?
«Merito della scuola: i ragazzini crescono insieme. I piccoli commerci locali: rendono indispensabili le relazioni delle persone tra loro. Così si accettano più ragionevolmente le reciproche diversità. Ma è un equilibrio fragilissimo, basta nulla per mandarlo in frantumi. Pensiamo a quanto accadde a Sarajevo: anche la società più equilibrata può sempre essere destabilizzata».
Cosa rende invece le banlieue così arrabbiate e violente?
«Dovete capire una cosa: Parigi è costruita in modo concentrico, come i gironi dell’Inferno di Dante. Belleville è “intra muros”, fa parte di Parigi. Le periferie sono fuori, lontane. La condizione sociologica della periferia è disastrosa e pertanto esplosiva: le bande, la droga, la disoccupazione e l’emarginazione, l’estremismo...».
Lei è cresciuto in una società che sognava di abbattere i muri, ora invece quei muri stanno tornando dappertutto. Cosa ne pensa?
«La nostra è una società mercantile che ha creato una sorta di individualismo generalizzato. I simboli politici sono oggi i vari Trump, Bolsonaro, Milei: persone totalmente individualiste che, per una comunità iperconsumista, sono diventate il modello di riferimento di come debba essere un capo. E questo in un ciclo storico in cui la società prevede il culto del capo. Mentre, di contro, vengono polverizzati gruppi politici e sindacali».
Esasperano le nostre paure per crescere politicamente?
«Questo individualismo non è figlio delle paure, ma della mercificazione di tutto e tutti. Internet, poi, permettendo a tutti di esprimersi anonimamente, fa crescere ancora di più questo individualismo».
Anche Macron è un capo senza un partito alle spalle. È diverso?
«È un candidato “solitario” che si è installato al potere malgrado i partiti, ma è comunque un democratico, che parla di valori democratici».
Oggi si parla sempre più di intelligenza artificiale: teme anche i suoi effetti?
«È la stessa cosa. Che sia buona o cattiva, dipende dall’uso che se ne fa. Non è lei a spaventarmi, ma chi la usa e come».
Attorno al suo personaggio Benjamin Malaussène gravita una grande famiglia allargata ed elettiva: in nome della tradizione, anche questa idea è sotto attacco, oggi, non pensa?
«Io e mia moglie siamo un esempio di famiglia allargata: senza figli, siamo genitori adottati (non adottivi) da tante generazioni di figli. Attorno a noi una galassia di persone che sono poi diventate amiche tra loro e si frequentano anche se noi non ci siamo. È una specie di fraternità ideale. Quanto alla famiglia tradizionale, in Francia in realtà si è imposto il modello della famiglia monoparentale. Anche qui aggiungo: colpa di quel consumismo che non aiuta uomini e donne a uscire dal proprio individualismo. Poi dico queste cose e penso: ma sto forse diventando un vecchio reazionario?».