La Stampa, 3 dicembre 2023
Intervista a Jean Todt
Inverno 2013, Alpi francesi: Michael Schumacher ha lasciato da un anno la Formula 1 e si gode lo sci a Meribel. In una banale caduta, sbatte la testa con violenza su una roccia. Il casco non basta a proteggerlo. Dopo una vita trascorsa ad alta velocità, il sette volte campione del mondo finisce in coma per un tranquillo fuoripista. Dieci anni dopo, i riflettori restano spenti. L’intervento chirurgico, le cure sperimentali, la lunga, quotidiana riabilitazione non sono bastati a restituircelo. La famiglia ne protegge la riservatezza, soltanto le persone più care possono vederlo. «Michael è un amico, lo considero parte della mia famiglia», racconta Jean Todt, il capo della Ferrari invincibile dei primi anni Duemila. «Vado a trovarlo regolarmente, in passato abbiamo seguito dei Gran premi in tv». Ma la domanda “come sta?” non trova risposta, perché forse non ce l’ha. «È una questione privata. L’unica cosa che dico è che adoro Michael, adoro la sua famiglia ed è giusto rispettarne la privacy». Todt ne parla dal suo ufficio all’Onu di Ginevra. Dopo una vita tra i motori, adesso si occupa di sicurezza stradale. Sulla parete alle sue spalle un planisfero ha preso il posto delle auto sportive.
Todt, come è stato il suo rapporto con Schumacher in Ferrari?
«All’inizio professionale, poi di sempre maggiore fiducia, fino a diventare una grande amicizia».
Lei comincia la sua avventura a Maranello nel 1993. Si presenta al presidente Luca Montezemolo in Mercedes…
«Primo luglio del ’93 per l’esattezza, trent’anni fa. L’auto era quella che ho trovato al noleggio. Il presidente è stato coraggioso a prendere un francese senza esperienza di Formula 1 e che non parlava italiano. Ha anche avuto il coraggio di lasciarmi continuare malgrado le pressioni esterne».
Nel 1996 arriva Schumi, ma senza risultati. Come uscite dalla crisi?
«La situazione all’inizio era disastrosa. Nel ’96 si parlava molto del mio licenziamento. Michael era appena arrivato e vedeva che il mio piano era giusto, la gente che stava per arrivare e con cui trattavo in segreto corrispondeva al nostro progetto. Per questo è intervenuto e ha detto: “Se parte Todt, me ne vado anch’io"».
È stato l’imprinting della vostra amicizia?
«Di sicuro ha fermato chi pensava di mandarmi via».
I tre anni successivi sono drammatici: tre sconfitte all’ultima gara.
«La prima nel 1997 è stata una caz...a di Michael (lo scontro intenzionale con Jacques Villeneuve, ndr). In quell’occasione l’abbiamo molto protetto. Nel ’98 c’è stato lo scandaloso comportamento di Coulthard, che a Spa sotto la pioggia gli ha frenato davanti per farsi tamponare e fermarlo. Nel ’99 Michael si è rotto la gamba in un incidente. Quando è rientrato, ha aiutato Irvine. Se anche gli avesse ceduto la posizione all’ultima gara, il titolo sarebbe comunque andato a Hakkinen. Però è arrivato il primo posto tra i costruttori».
Una mezza delusione più che una mezza gioia, non crede?
«Nel 2000 vinciamo. L’abbraccio con Michael sul podio è il momento sportivo più felice della mia vita, Abbiamo finalmente raggiunto l’obiettivo che ci eravamo posti nel 1993».
Schumacher e la Ferrari di inizio millennio assomigliano a Verstappen e alla Red Bull degli ultimi tre campionati?
«Sì, ci sono affinità. La Red Bull ha costruito una squadra vincente con un pilota straordinario, molto professionale, intelligente in gara. Un talento fantastico».
Perez, compagno di squadra di Verstappen, è il Barrichello della situazione? Un gregario costretto a sottomettersi al campione?
«Conosco abbastanza bene Barrichello, molto meno Perez: è un bravissimo pilota, certo non all’altezza del compagno, che ha vinto 19 gare a 2. I risultati parlano, anche se non sono una garanzia di successi futuri».
Lei crede che nel 2024 potremmo vedere altri protagonisti?
«Non ricorda il 2005? Stessa squadra, stessi piloti dopo una stagione trionfale. C’è Schumacher, eppure non siamo competitivi. Torniamo a essere veloci nel 2006, ma perdiamo per problemi di affidabilità. Michael annuncia un primo addio alla Formula 1. Tornerà nel 2010 in Mercedes. Noi intanto vinciamo nel 2007 con Raikkonen e perdiamo negli ultimi metri nel 2008 con Massa».
Che ha appena avviato un’azione legale perché gli riconoscano il titolo.
«Non entro nella polemica. Per lui psicologicamente è stata molto dura. Forse potevamo essere più duri quando si è saputo di questa storia. Non c’è dubbio che il Gran premio di Singapore è stato truccato e andava cancellato».
Chi sono gli eredi di Schumacher?
«Io faccio il tifo per Leclerc. Mio figlio lo segue fin da quando correva nei go-kart. È un grande pilota e merita l’occasione di vincere il titolo».
Il suo successore in Ferrari è stato Stefano Domenicali, che adesso dirige la Formula 1. Le piace quello che ha fatto?
«Sono contento della sua bella carriera. Abbiamo trascorso 16 anni insieme. È stato un po’ ingiustamente licenziato dalla Ferrari, ma questo momento no si è trasformato in una opportunità. Sta lavorando benissimo. Ogni tanto il destino nell’immediato sembra brutto, poi ci regala soddisfazioni».
Ha mai avuto nostalgia della Formula 1?
«No, nostalgia mai. Sono fortunato, sono stato l’ultimo a vincere in Ferrari e i tifosi mi ricordano ovunque. Con la mia attività all’Onu riesco a restituire al prossimo quanto di buono ho ricevuto nella mia vita. E poi adoro sempre le corse, quando programmo appuntamenti e viaggi controllo prima se c’è un Gran premio. La scorsa settimana ero a Pechino e dovevo rientrare domenica sera. Mi sono reso conto che sarei stato in aereo durante la gara di Abu Dhabi. Allora ho preso il volo alle 2 di notte per non perdermi la corsa».
Qual è il suo principale impegno all’Onu?
«Sono inviato speciale della sicurezza stradale. Combatto un’epidemia silenziosa: ogni anno sulle strade muoiono 1,3 milioni di persone, l’equivalente di Milano. L’obiettivo è dimezzare le vittime».