la Repubblica, 3 dicembre 2023
Tra i liberati Hebron
Nel giardino della casa di Raed Sarsour, 19 anni, a Hebron, sono sistemate due file di sedie di plastica, qualche sgabello con alcune bottiglie d’acqua e dei datteri.
Raed è stato rilasciato due giorni fa dal carcere di Ofer durante l’ultimo scambio di prigionieri tra Israele e Hamas. Era in carcere dalla fine di giugno.
Sulla tavola ci sono solo datteri, nessun dolce, come è consuetudine in queste occasioni, cioè quando si celebra la liberazione di un detenuto. Itamar Ben Gvir, ministro israeliano della sicurezza nazionale di estrema destra, era stato chiaro: «Non ci devono essere espressioni di gioia, le espressioni di gioia equivalgono a sostenere il terrorismo, le celebrazioni della vittoria danno sostegno a quella feccia umana, a quei nazisti».
Raed è stato arrestato due volte, la prima quattro anni fa, a 15 anni, ha passato sei mesi nella prigione di Megiddo: «Soffrivo, ero un ragazzino, non potevo ricevere visite, non potevo chiamare i miei parenti, per mesi non ho saputo cosa accadesse fuori dalla prigione».
La seconda volta, cinque mesi fa, posto in detenzione amministrativa. «Sono venuti a prelevarmi e mi hanno detto che rappresento una minaccia contro la sicurezza della zona e che sono un attivista. Questo è tutto». Poi lo hanno chiuso in una cella con altre dieci persone, il suo caso come migliaia definito «riservato», la sua detenzione rinnovabile di sei mesi in sei mesi fino a due anni. Senza che lui potesse aver accesso a nessuna accusa, prova o incontro con un avvocato. Prima di essere arrestato Raed studiava Economia e lavorava come addetto alle vendite in un negozio di Hebron per aiutare la sua famiglia. Non faceva parte di nessun movimento né quando lo hanno arrestato la prima volta, né pochi mesi fa: «Non appartengo a nessun partito. Durante la prigionia non sono stato coinvolto in alcun movimento. Sono indipendente, non appartengo né a Fatah, né a Hamas, Jihad o altri».
Durante gli interrogatori ha provato a chiedere «perché sono qui?», ma la risposta è stata sempre, soltanto, «file riservato». Così ha smesso di fare domande e si è fatto forza. Sa che sono poche le famiglie in Cisgiordania senza un parente in carcere, «fa parte del nostro destino, cresciamo sapendo che possiamo essere prelevati a casa nel cuore della notte senza nessun motivo».
La mattina del 7 ottobre, a differenza degli altri giorni, le porte delle celle sono rimaste chiuse. In poco tempo nel carcere si è diffusa la notizia dell’attacco di Hamas, l’amministratore della prigione è entrato nel corridoio dicendo che fino a nuovo ordine nessuno sarebbe uscito a prendere aria. Quattro ore dopo le guardie carcerarie sono entrate per requisire i fornelli, i televisori e le radio, il giorno dopo hanno tagliato acqua e elettricità. Hanno portato via le coperte e i cuscini, il cambio dei vestiti. Il giorno successivo gli agenti di sicurezza sono entrati in gruppo nelle celle, hanno ammanettato i detenuti e hanno cominciato a picchiarli. E così ogni giorno per le settimane seguenti.
Quando è entrato in carcere pesava 85 chili, oggi ne pesa 71.
Quattro giorni fa è stato picchiato tre volte, gli agenti lo hanno insultato, minacciato che avrebbero distrutto casa sua, arrestato il padre e i fratelli. Gli hanno comunicato che la detenzione amministrativa sarebbe stata estesa altri sei mesi. Poi, due giorni fa, la porta della sua cella si è aperta di nuovo, stavolta per tornare a casa. Il nome di Raed era sulla lista dello scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi.
Durante i sette giorni di pausa delle ostilità sono stati liberati, in sette scambi diversi, 105 cittadini israeliani presi in ostaggio da Hamas e 240 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Uno a tre.
È intorno al mancato accordo sui nuovi rilasci, prima ancora che sul lancio di razzi dalla Striscia di Gaza verso Israele e la ripresa dei bombardamenti nella zona meridionale della Striscia, che si sono mossi i Paesi negoziatori, Stati Uniti, Qatar ed Egitto, sperando in una estensione della tregua. È intorno allo scambio di ostaggi e prigionieri che sta saltando ogni tentativo di dialogo, al punto che ieri Israele ha chiesto alla squadra del Mossad inviata a Doha a discutere la possibilità di riprendere la tregua di rientrare.
I negoziatori internazionali avevano sperato nella durata della calma tra Israele e Gaza. Sarebbe stato più difficile per Israele riavviare la campagna militare ed estenderla a Sud, dove le forze armate israeliane ritengono si stia nascondendo la leadership di Hamas e dove potrebbero trovarsi anche gli ostaggi ancora nelle mani di vari gruppi armati.
La stragrande maggioranza dei 300 prigionieri palestinesi proposti per il rilascio da Israele è composta da adolescenti. Secondo l’elenco, 124 prigionieri hanno meno di 18 anni, inclusa una ragazza di 15 anni, e molti dei 146 sono diventati maggiorenni nelle carceri israeliane, perciò, secondo le definizioni stabilite nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, quando sono stati arrestati erano bambini.
Ieri il New York Times ha pubblicato un confronto tra i dati degli elenchi israeliani e gli elenchi dei palestinesi pubblicati dalla Commissione per gli affari dei prigionieri dell’Autorità Palestinese: «I dati israeliani – scrive il quotidiano statunitense – mostrano che la maggior parte era in prigione da meno di un anno, 37 sono stati arrestati durante o dopo il 7 ottobre» e che tre quarti dei palestinesi rilasciati non erano stati condannati per alcun crimine. Dei 300 nomi proposti da Israele per un potenziale rilascio, 233 sono classificati semplicemente come «in arresto».
È da questi dati che parte l’analisi di Omar Shakir, Direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina: «Molto si è detto sullo scambio di ostaggi e detenuti – scrive – poco si è detto sul motivo per cui Israele abbia così tanti palestinesi in detenzione».
Il numero di detenuti palestinesi è il risultato della separazione dei sistemi di giustizia penale che le autorità israeliane mantengono nei territori occupati. I tre milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania, vivono secondo la legge militare e sono quindi perseguiti dai tribunali militari, mentre i 500 mila coloni israeliani sono disciplinati dal diritto civile e penate e processati nei tribunali civili.
Questo significa, per esempio, che i palestinesi possono essere trattenuti otto giorni prima di vedere un giudice, mentre per la legge israeliana un imputato deve essere in condizione di vedere un giudice entro 24 ore dall’arresto, tempo esteso a 96 ore solo in casi eccezionali.
I palestinesi possono essere detenuti per aver partecipato a un incontro con altre dieci persone, perché potrebbe essere interpretato come raduno politico, mente i coloni in Cisgiordania sono autorizzati a manifestare senza alcun permesso, ammesso che i raduni avvengano all’aperto e con un numero di partecipanti che non superi le cinquanta persone.
Secondo HaMoked, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, nelle carceri israeliane ci sono circa 7 mila detenuti palestinesi arrestati per presunti reati contro la sicurezza.
Dal 7 ottobre a oggi, sono stati arrestati più palestinesi di quanti ne siano stati rilasciati nell’ultima settimana. La maggioranza di loro non è mai stata condannata e 2000 sono in carcere in detenzione amministrativa, l’esercito israeliano può cioè trattenerli indefinitamente, senza accusa né processo, sulla base di informazioni secretate che il detenuto non è autorizzato a conoscere.
Le autorità di Tel Aviv sostengono che la detenzione amministrativa sia una misura preventiva necessaria in Cisgiordania, nonostante le critiche degli osservatori internazionali. Un rapporto del Parlamento Europeo del 2012 descriveva la detenzione amministrativa come una tattica impiegata «per limitare l’attivismo politico palestinese». Nel 2020, Michael Lynk, allora relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi, ha invitato Israele ad abolire questa pratica.
La disparità di trattamento coinvolge anche i bambini, la legge civile israeliana protegge i bambini dagli arresti notturni, garantisce il diritto alla presenza di un genitore durante gli interrogatori e limita il periodo di tempo in cui i bambini possono essere detenuti prima di poter consultare un avvocato ed essere presentati davanti a un giudice.
Per i bambini palestinesi non è così, sono arrestati spesso di notte, condotti in prigione senza genitori né parenti, con le mani legate e gli occhi bendati. Già nel 2013, l’Unicef denunciava «il maltrattamento dei bambini che entrano in contatto con il sistema di detenzione militare, diffuso, sistematico e istituzionalizzato».
«In breve, coloni israeliani e palestinesi vivono nello stesso territorio, ma sono processati in tribunali diversi secondo leggi diverse con diversi diritti al giusto processo e affrontano condanne diverse per lo stesso reato – sintetizza Omar Shakir, di Human Rights Watch – il risultato è un numero elevato e crescente di palestinesi imprigionati senza un giusto processo di base».
Oggi per i palestinesi liberati niente è facile. Negli elenchi diffusi dalle autorità israeliane, tutti i prigionieri in attesa di rilascio sono definiti «terroristi». Come chi li aspetta a casa per celebrare la liberazione.
Dei giorni successivi al 7 ottobre, Raed ricorda che quando è rimasto chiuso per giorni dentro la cella, gli unici pensieri e le preghiere andavano alla sua famiglia. Voleva ascoltare la voce di sua madre, di suo padre, dei fratelli. Non sapeva niente di cosa accadesse fuori di lì. Dell’arresto di suo padre l’ha scoperto due giorni fa quando è stato rilasciato. Anche lui in prigione per venti giorni, la stessa, quella di Ofer. Uno nel dipartimento 28, uno nel 18.
Oggi, sebbene sia tornato a casa, non può muoversi. È monitorato, non può lasciare Hebron.
Siede circondato dai vicini che arrivano, uno dopo l’altro al calare della sera. Stringono la mano al padre, abbracciano il ragazzo, che della prigionia però non vuole parlare.
Non perché se l’è lasciata alle spalle, ma perché teme che le porte della cella possano aprirsi presto, per la terza volta, senza ragione.