Corriere della Sera, 3 dicembre 2023
Intervista a Steve McCurry
Dietro la cover gialla del telefonino di Steve McCurry, un adesivo rassicura: «You are beautiful», sei bellissima. «Lo ha messo mia figlia, è appassionata di adesivi e me li appiccica pure in faccia», ride l’autore della celeberrima ragazza afghana che dalla copertina del National Geographic nel 1985 fece il giro del mondo, quando ancora le immagini non viaggiavano sui social.
Sua figlia ha 6 anni e si chiama Lucia. Come mai un nome italiano?
«Mia nonna si chiamava Lucy e sua nonna Luvina. Mi piaceva mantenere la L. Il nome racchiude luce e occhi».
Com’è essere padre a 73 anni?
«Bellissimo, impari ogni giorno. È un amore diverso ed è un lavoro a tempo pieno!».
A Lucia piace essere fotografata da lei?
«Diciamo che lo tollera. La fotografo ogni mattina prima che vada a scuola. Viaggia da quando è nata. Mi piacerebbe fare un libro su di lei, ma è importante che sia d’accordo. Magari un libretto piccolo e ne stampiamo solo 50 copie! Per adesso ho pubblicato nei miei libri tre o quattro foto».
Una nel «Calendario Lavazza» del 2021, ritratta come un’infermiera.
«Sì! Da grande vuole diventare medico o scienziata».
E lei cosa sognava?
«Di fare il vigile del fuoco. Mi piacevano la divisa, il cappello, mi sembrava un mestiere eccitante».
I suoi genitori che lavoro facevano?
«Mio padre, Eugene, era ingegnere. Mia madre, Doris May, la casalinga».
Sua sorella Bonnie ha detto che se non avesse avuto l’incidente a 5 anni che le ha compromesso in parte l’uso della mano destra, non sarebbe diventato il fotografo di oggi.
«Le avversità ti rendono più forte, devi adattarti. Anche la morte di mia madre quando avevo 9 anni ha avuto il suo impatto, mio padre l’ho perso a 22. È difficile dire quanto questi eventi abbiano contribuito a rendermi chi sono. Sono diventato tenace e ho scelto un mestiere che richiede dedizione totale, senza una vita regolare».
La foto più difficile?
«Diverse. Ora me ne viene una in Vietnam, con questa coppia all’ospedale con un figlio, il padre aveva l’Aids. Io dovevo documentare gli effetti di una cura sperimentale. Mentre ero lì hanno detto alla moglie, molto giovane, che era stata contagiata pure lei. Mentre andavamo via ha cominciato a piangere. È stato difficile fotografare quel momento privato».
C’è una foto che ha scelto di non scattare?
«No. Quando ho un dubbio mi fermo e mi domando qual è il mio obiettivo, che cosa mi ha portato lì. Anche nei momenti privati, come un funerale o un matrimonio, c’è il senso della testimonianza».
Ha mai vissuto il paradosso del fotografo: scattare anziché intervenire?
«Non mi sono mai trovato nella situazione che il mio intervento avrebbe potuto salvare una vita, altrimenti non avrei avuto dubbi. È successo che abbia dato acqua, cibo, soldi, un passaggio. Quello è normale ed è giusto farlo».
Chiede mai il permesso per una foto?
«È una domanda a trabocchetto. Magari capita, se ne faccio una per strada. Ma c’è una lunga tradizione di fotografi che hanno catturato istanti spontanei che non sarebbero mai riusciti facendo mettere quelle persone in posa. Il punto è sempre essere rispettosi e non mettere mai nessuno in imbarazzo».
Qualcuno si è mai riconosciuto e le ha chiesto soldi?
«Sì, una coppia che diceva di essere la protagonista di uno scatto fatto a Roma 20 anni prima. Ma è bastato uno scambio di lettere con i miei avvocati per chiudere la faccenda: non potevano neanche provare di essere loro».
Prima di un reportage si prepara o va d’istinto?
«Entrambe le cose. Se vado in città come Milano, Kyoto o Kathmandu cerco di sapere che cosa le rende uniche. Però una volta arrivato mi lascio sorprendere dall’atmosfera. Amo lavorare da solo».
A Modena, al Bper Forum Monzani, alla presentazione del suo ultimo libro «Devotion» pubblicato per Mondadori, ha usato parole bellissime per Gino Strada. Quando vi siete conosciuti?
«In realtà non l’ho mai incontrato. Ero stato a Kabul nel suo ospedale nel 2016 e mi avevano colpito questi medici che sarebbero potuti rimanere comodi a casa loro, con l’acqua corrente e l’elettricità, la famiglia e gli amici, e invece erano lì per Emergency. Quella, per me, è devozione».
Lei a cosa è devoto?
«A mia moglie e a mia figlia. E al mio lavoro. Le foto sono una sorta di diario della vita che ho vissuto».
Quante ne ha in archivio?
«Sospetto più di un milione, non le ho mai contate».
In quale Paese è stato più volte?
«Probabilmente in India, un’ottantina. Una anche con Lucia, a Calcutta».
Un Paese che le manca?
«Se fossi sicuro che non mi arrestassero, andrei in Iran, ma dubito che possa accadere. Eppure sarebbe un posto bellissimo da visitare, con una cultura straordinaria, una grande storia. Oggi, però, è troppo pericoloso».
Da quando si è sposato con Andie Belone non va più nei teatri di guerra?
«Non è vero. Sono stato due volte in Ucraina, perché avevo bisogno di vedere con i miei occhi. Certo, oggi non andrei a Gaza: ho 73 anni. Se vai lì ti devi adattare a dormire dove capita, a condividere le poche risorse che ci sono, e devi anche mettere in conto che potresti morire. L’ho già fatto».
Ricorda il primo incarico?
«Sì, un incidente stradale. All’inizio è stato difficile guardare la scena, poi la macchina fotografica ha fatto da filtro».
Piange mai su un servizio?
«No. Ci sono stati servizi che mi hanno toccato profondamente, come l’11 Settembre. Ma anche allora sentivo la responsabilità di testimoniare e di stare attento».
C’è una foto che preferisce?
(Mostra sul cellulare Lucia che gli fa una linguaccia).
Ha ricevuto tantissimi premi. A quale tiene di più?
«All’Ambrogino d’oro che ricevetti dalla sindaca Letizia Moratti, nel 2009».
Lo dice perché è a Milano.
«No, sono serio. I premi per le fotografie fanno sempre piacere, ma sono arbitrari, dipendono da giudizi soggettivi. L’Ambrogino è un riconoscimento alla carriera».
C’è un fotografo che le sarebbe piaciuto conoscere?
«Ne ho conosciuti tanti. A partire da Brian Brake, di cui ho replicato il lavoro sui monsoni che avevo visto la prima volta a 12 anni. Ma l’incontro più significativo è stato con Henri Cartier-Bresson. Andavo a casa sua e di Martine a portargli i miei libri. È stato generoso, anche con le critiche. E con un grande senso dell’umorismo».
Ha conosciuto anche il «nostro» Ettore Mo, scomparso poche settimane fa.
«Ci siamo conosciuti nel 1980 in Afghanistan, con noi c’era anche Peter Juvenal. Ricordo che una notte ci vennero a prendere i mujaheddin per portarci a Jalalabad e camminammo fino al mezzogiorno successivo. Una volta arrivati Ettore si accorse che gli avevano rubato i suoi 800 dollari cash e il capo dei mujaheddin, che non poteva tollerarlo, glieli restituì in valuta locale: incredibile».
La guerra ha scelto lei o lei ha scelto la guerra?
«Non mi sono mai considerato un fotografo di guerra. Ma in qualche modo è stata la guerra a scegliermi, quando i talebani mi proposero di unirmi a loro nel giugno del 1979 a Chitral. Arrivavo dall’India. Era rischioso, ma prevalse l’istinto. Quella storia sarebbe durata molti anni».
E la portò a incontrare Sharbat Gula, la «Ragazza afghana». Se è considerata la Monna Lisa della fotografia, lei allora è Leonardo da Vinci.
«Ogni volta che il mio nome compare nella stessa frase con Leonardo da Vinci va bene! Sapevo che sarebbe stata una foto speciale, aveva uno sguardo straordinario. Era povera, ma piena di dignità. Adesso vive in Italia, ci sentiamo una volta al mese».
C’è una foto che avrebbe voluto scattare lei?
«L’“Uomo in bicicletta”, di Cartier-Bresson. A casa ho appeso l’originale, con dedica».
Come si definirebbe? Un artista o un fotografo?
«Lei come definirebbe Cartier-Bresson? Ha fatto una sorta di lavoro documentaristico, ma artistico. Le sue foto sono vere, eleganti, hanno umanità, armonia, ritmo: elevano lo spirito. Però un artista non ha regole, mentre un fotografo deve rispettarne alcune: una è la verità dei fatti».
Però una volta cancellò un uomo su un risciò.
«Quello fu un errore. Ma credo che si possa lavorare sul contrasto, su luci e ombre. I fotografi lo hanno sempre fatto nella camera oscura».
Quante macchine fotografiche ha?
«Una ventina. Compresa quella di mio padre, che conservo ancora».