Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  dicembre 03 Domenica calendario

Biografia d Ferdinando Scianna raccontata da lui stesso

La giovinezza in Sicilia, la fuga a Parigi per seguire i suoi sogni Il racconto di una vita dedicata a immortalare l’istante Dall’amicizia con Kundera e Sciascia all’incontro con Cartier-Bresson che lo introduce alla MagnumdiAntonio GnoliSiede come d’abitudine dietro alla grande scrivania con alle spalle volumi e volumi di fotografia. Sembra il comandante di una nave che sta per salpare e nel mentre decide la rotta si accende la pipa. Avevo incontrato Ferdinando Scianna una decina di anni fa e ricordo le stesse movenze e gesti di allora come oggi. Penso che quest’uomo conosca l’arte del rituale. Una specie di cerimonia del tè applicata alla vita quieta del suo studio. Dove conserva il materiale in un archivio vasto e organizzato. Ha compiuto 80 anni e sembra voglia dirmi: «Beh un altro decennio è alle spalle». Ma alle spalle c’è stato il rischio di non farcela e di andarsene definitivamente: «L’anno scorso ero più morto che vivo. Non credevo che sarei sopravvissuto e ho pensato, comunque vada hai fatto quello che volevi». Ha appena pubblicato per Contrasto Abecedario fotografico,frammenti di vita di questo grande fotografo.Immagino avrai ricevuto molti festeggiamenti per i tuoi ottant’anni come hai reagito?«Ne ho avuti in Sicilia dove sono nato e qui a Milano che considero una specie di seconda patria. A Milano devo il successo, alla Sicilia le mie ossessioni. Da un lato ho appreso l’efficienza e il pragmatismo, dall’altro la nostalgia e la rabbia per una terra speciale piena di contraddizioni».Ti senti diviso tra questi due mondi?«Ho imparato a tenerli separati ma contemporaneamente in una qualche relazione favorita dal fatto che sono un siciliano chiacchierone. Amo parlare, comunicare, mi sono accorto di provare gioia quando gioco con le parole».Non hai la stessa reazione con lo sguardo?«Sono più assuefatto. Nasco come fotografo più di sessant’anni fa. Credo di aver scattato e stampato oltreun milione di fotografie. Non ho più gioia da molto tempo. O meglio riaffiora se guardo certe foto legate ad alcune situazioni particolari».Intendi dire che una foto riuscita è parte di te?«Lo sono anche quelle meno riuscite, le foto sbagliate o quelle che non avresti voluto fare. Credo che una foto sia testimone di un istante unico, che mi fa prigioniero nel momento stesso in cui mi libera».È un paradosso.«Me ne rendo conto. Ma lo chiamerei magia degli opposti. Ho spesso pensato al fatto che un’invenzione puramente tecnica abbia in sé l’impalpabile potenza dell’immagine e dunque del sogno. Qualcosa di involontariamente ipnotico per cui è l’immagine che ti possiede e non viceversa. In fondo, se ci pensi, le prime reazioni alla fotografia furono di sgomento. Ancora ci sono popoli convinti che fotografare un volto equivalga al furto dell’anima».Hai ritratto molti volti, descrivendone tempi e circostanze. Cosa ti attrae di un viso?«La sfida è tutta nella pretesa di voler fermare il tempo. Di fornire al ritratto un’insensata immortalità».Una sindrome alla Dorian Gray.«Ma lui invecchiava orrendamente allo specchio.Piuttosto mi vengono in mente gli anni trascorsi a Bagheria, il paese dove sono nato. Ricordo che i vecchi non amavano farsi fotografare. E c’era in paese un solo fotografo. Si chiamava Coglitore. Per tutti era il fotografo dei morti. I parenti dei defunti gli chiedevano di ritrarne i volti. Fu così che si specializzò in una sorta di macabro aldilà. E mio padre che reputava la fotografia meno di niente, all’annuncio che avrei voluto fare il fotografo, esclamò: ma che mestiere è? Finirai come Coglitore!».Perché si opponeva?«Non vedeva alcun futuro. Voleva che studiassi da ingegnere o da medico. Questo voleva. Ero a Parigi quando morì. Non pensavo che la scomparsa di un uomo, ancora nel pieno degli anni, mi ferisse nel profondo. Miresi conto che molto di quello che avevo fatto sul campo della fotografia era per dimostragli che aveva torto. In paese non disse mai che aveva un figlio fotografo. Se ne vergognava e a me è restata questa ombra tra noi».Eri a Parigi perché?«Lavoravo per l’Europeo come fotografo. Erano i primissimi anni settanta. L’allora direttore Tommaso Giglio voleva che il suo settimanale puntasse sull’immagine. Il che era gratificante se non fosse che guadagnavo un terzo dello stipendio di un giornalista. Per fortuna Giglio volle anche che di tanto in tanto scrivessi».Avevi nostalgia della tua terra?«No, in quel momento Parigi era il centro del mondo. E poi, spesso, veniva Sciascia di cui ero amico a restituirmi un certo sapore della Sicilia».È stato messo in giro un aneddoto di te e Sciascia in un cinema a luci rosse.«È vero. Di solito con Leonardo giravamo per librerie, soprattutto antiquarie. Un pomeriggio in maniera molto diretta mi chiese: ma tu, hai mai visto un film pornografico? Certo, risposi. Vuoi andarci? Sì, rispose. Girammo un po’ e alla fine entrammo in uno di questi cinemini. Ci accomodammo. Sparsi nella sala buia c’erano un po’ di spettatori».Ricordi il film?«Sicuramente non era Bergman. No, non ricordo.C’erano delle grandi chiappe e dei seni procaci che si dimenavano in una specie di orgia».E Sciascia provava disagio?«Con la coda dell’occhio vedevo la rigidità del suo corpo. Non un movimento, non un fiato. Dopo una ventina di minuti disse solo: usciamo. Ci ritrovammo sulla stradina. Non sapevo da che parte cominciare. E lui, stringato come al solito, commentò: la vera cosa pornografica là dentro eravamo noi due!».A parte Sciascia chi vedevi a Parigi?«Cartier-Bresson mi donò la sua amicizia. Era un uomo geniale e semplice al tempo stesso. Grazie a lui entrai nell’agenzia Magnum. Per vent’anni l’ho frequentato e perfino fotografato. Certe volte mi convocava la domenica, imponendo a me e a Josef Koudelka lunghe passeggiate».Cartier-Bresson fu il teorico dell’istante. Il momento in cui si scatta la foto.«Sull’”istante decisivo” si è detto perfino troppo. Gli si è attribuita eccessiva importanza. In fondo è una questione di occhio, di sguardo, di allenamento. È l’esperienza che ti porta a decidere quando fotografare».Ma che cosa rende l’istante proprio quell’istante?«Se ti riferisci all’unicità risponderei che è il carisma che la foto emana. Ma è sempre un dopo. Prima c’è solo il fotografo che crede che quell’unicità di scatto sia l’istante decisivo».Ma così la decisione di “scattare” si lega molto al caso.«Veniamo al punto vero. Mio nonno faceva il falegname e la sua materia prima era il legno. La mia materia prima è il caso».In che misura?«Mi piacerebbe risponderti minima. In realtà temo contribuisca più di quanto la fotografia abbia creduto».Eppure in quell’istante decisivo di cui parlava Cartier-Bresson c’è come un risvolto messianico.«Cosa c’è di più casuale dell’attesa di un messia?Viene, non viene, boh. Non credo che la religione influenzi la sostanza della fotografa. Non credo al miracolo e non credo neppure che la fotografia sia un’arte. Non si può metterla al confronto con la pittura solo perché entrambe parlano attraverso le immagini.La magia della fotografia è soprattutto un fatto tecnico. È il lato che il cinema eredita».Quindi chi è il fotografo?«È uno che ha un buon mestiere tra le mani e mi pare totalmente oziosa la discussione sul carattere artistico della fotografia. E comunque non mi importa».Baudelaire condannava la fotografia perché voleva innalzarsi sul piedistallo dell’arte.«Aveva ragione perché l’irruzione di quello strumento sconvolse nell’Ottocento i canoni estetici. Ma poi per farsi accettare, la fotografia si è seduta sullo strapuntino in attesa che l’arte la prendesse per mano e la portasse a esibirla in giro per il mondo».L’arte insomma è un’altra cosa?«Un’altra cosa».E il cinema?«Anche il cinema è un’altra cosa. Ma non vorrei addentrarmi in discorsi complicati. Sono stato fin da bambino un grande appassionato di film e non posso escludere che abbiano contribuito alle mie decisioni successive. Al tempo stesso ho forti dubbi che io nella vita abbia fatto scelte lucide e razionali».Sei istintivo?«Sono influenzabile. Poi magari dico: è stato l’istinto aguidarmi oppure la razionalità. La verità è che subisco molto il giudizio e la pertinenza altrui».Parlavamo dei tuoi incontri parigini.«Il più eclatante fu con Milan Kundera. Me lo presentò Dominique Fernandez nel 1977. Andai a trovarlo a Rennes, dove insegnava, per fargli un’intervista. Allora erano in pochi a sapere chi fosse e cosa avesse scritto.Da Rennes si trasferì a Parigi e cominciamo a vederci con una certa regolarità».Ti ha mai parlato della sua vita precedente alla Francia?«Intendi Praga, la Cecoslovacchia, quel mondo fatto di speranze tradite e di oppressione? Ne parlava per brevi accenni. Quando gli dissi che ero stato a Praga durante l’invasione sovietica, mostrò, almeno così mi parve, una diversa attenzione nei miei confronti.Aveva l’amarezza di chi sentiva che quel regime politico intossicava anche antiche amicizie».Cosa intendeva dire?«Mi riferì di quando la moglie Vera tornò per alcuni giorni a Praga per cercare di risolvere il problema della madre che abitava a casa di Milan e che le autorità volevano cacciare se lui non fosse rientrato in patria.Gli amici di un tempo finsero di non riconoscere Verao ne ignorarono l’arrivo. Questo mi raccontò e soprattutto si rifiutava di essere considerato un dissidente. Voleva essere solo uno scrittore».Sei stato fotoreporter, fotografo di moda, ritrattista. Come ti definiresti?«Ho fatto di tutto senza mai tirarmi indietro.Cominciai seriamente documentando le feste religiose. Il mio primo libro di immagini con lo scritto di Sciascia fu appunto di stampo etnologico. Non cercavo l’esotico altrove, perché ce l’avevo in casa, in Sicilia, lungo le processioni, nelle chiese, tra le vecchiette raggrinzite e devote, tra i venditori di ceci, nelle piazze assolate con gli uomini seduti ai caffè. E a ben pensarci non era l’esotico, che Cartier-Bresson aveva sempre evitato, ma la vita come la conoscevo.Ecco, mi definirei un fotografo della vita. E ripenso a mio padre che temeva che diventassi il fotografo dei morti. Quanta incomprensione».Ritieni che il tuo mestiere sia stato anche una testimonianza di verità?«La parola verità è impegnativa, implica un’adesione etica. Tu vedi della verità in giro? Una foto, anche straordinaria, carismatica, può mentire quanto le parole. Ecco perché preferisco parlare di realtà. Mi sento, grazie alla fotografia, un testimone della realtà».Una realtà comunque manipolabile.«Ma sì, il mondo della fotografia è pieno di patacche.Da quando poi è invalsa l’intelligenza artificiale, tutto è falsificabile. È la perdita del carisma».Quella che Benjamin chiamava “aura”.«Lui si riferiva alla bellezza, io al dubbio se oggi una foto possa più essere considerata autorevole».Cosa intendi per autorevole?«Se una foto è autentica o no. Se ne discute fin da quando qualcuno mise in dubbio che Robert Capa avesse davvero fotografato il miliziano morente».Tu che ne pensi?«Quella foto che segnò il punto più drammatico e rappresentativo della guerra civile spagnola è autentica. Il miliziano non fu messo in posa. Lo dimostrò in modo convincente Romeo Martinez che la stampò. Romeo fu oltretutto un grande amico a cui devo la conoscenza di Cartier-Bresson. Mi raccontò che Capa nascosto nel sotto di una trincea, tirò fuori le braccia e scattò alla cieca. Quello fu l’involontario istante decisivo!».Dicevi all’inizio che hai fatto più di un milione di foto. Quando ti fermerai?«Non fotografo più da anni. Non perché non ne abbia voglia, ma perché è faticoso e il mio corpo non ce la fa più. Le foto si fanno con i piedi e miei piedi non ne vogliono più sapere».