Robinson, 3 dicembre 2023
Biografia di Diego Abatantuono raccontata da lui stesso
«Alla mia età, dopo più di cento film, spettacoli teatrali, televisione, ho voglia soltanto di star bene con i miei amici, la mia famiglia. Quando mi offrono un ruolo chiedo sempre dove si gira, perché non mi va di restare per tre o quattro mesi in un posto brutto, e poi chi sono gli altri compagni di lavoro.Il mio nuovo film, Improvvisamente a Natale mi sposo, l’ho girato con Nino Frassica e il mago Forest: per me è molto bello ma la verità è che ci siamo divertiti come non mai. E quando stai bene in un set il film viene meglio. Puoi giurarci».Diego Abatantuono, alla soglia dei 68 anni, è una miniera di ricordi. Un aperitivo alla Casa del Cinema di Roma, il ventilatorino sparato sul volto perché «fa un caldo della Madonna», e una conversazione che parte da quando a 12-13 anni il piccolo Diego comincia a respirare l’aria dello spettacolo al mitico Derby di Milano, dove lo zio era uno dei proprietari e sua madre faceva la guardarobiera: «Ero un predestinato, ho avuto la fortuna di capitare nel posto giusto al momento giusto.Passavo le mie serate a preparare il whisky di Renato Pozzetto, un dito di alcol e una quantità inaudita di ghiaccio, c’erano Boldi, Teo Teocoli, Jannacci, Gaber, Dario Fo, Beppe Viola. Ho fatto il cameriere, il fattorino, il tecnico delle luci, l’elettricista, il direttore di scena: ascoltavo i grandi del mestiere e nel frattempo imparavo».A quindici anni sei diventato il tecnico delle luci dei Gatti di Vicolo Miracoli, la tua prima tournée.«Arrivarono al Derby da Verona, una città borghese, un po’ bigotta se vuoi, e si affacciavano per la prima volta sul palcoscenico con tante speranze.Stando con loro, curando tutti i dettagli dei loro spettacoli, diventando praticamente il quinto del gruppo, ho fatto il vero salto di qualità. Mi riprendevano quando sbagliavo un congiuntivo, mi hanno fatto leggere i primi libri. E in più avevano un’agendina pazzesca con i numeri di telefono delle ragazze per tutte le tappe che facevano…».Però fare il tecnico non era il tuo sogno«No, io su un palcoscenico ci volevo salire sul serio e quindi a 22 anni sono tornato al Derby. Mio zio voleva allestire una compagnia stabile di giovani e aveva bisogno di qualcuno che presentasse le serate, una specie di Claudio Bisio diZelig per intenderci. E così ho debuttato, facendo da spalla ai vari Mauro Di Francesco, Giorgio Porcaro, Giorgio Faletti, Ernest Thole, Francesco Salvi. Ci videro Jannacci e Beppe Viola e ci scritturarono in blocco per una commedia brillante, La tappezzeria.Se faccio questo lavoro lo devo a Enzo e Beppe, non immagini nemmeno quanto mi mancano».Dopo un anno, l’esordio da solo. Ovviamente al Derby.«Scrissi un testo molto semplice, niente di speciale, pieno di “cagate”, però interagivo molto con il pubblico, prendevo di mira qualcuno che mi sembrava più “ricettivo” di altri e inframezzavo all’italiano il pugliese delle mie origini. In pratica nacque il personaggio del “terrunciello, milanese ciento pe’ ciento” e fu la svolta».Però per sfondare nel mondo del cinema bisognava farsi conoscere a Roma.«E infatti con quello che avevo incassato al Derby affittai un teatrino a piazza Navona. Per l’esordio invitai tutti quelli che avevo conosciuto negli anni: vennero Benigni, Arbore, i Vanzina, Villaggio, Steno, tanti amiciche mi avevano visto agli inizi. La prima sera il teatro era pieno come un uovo, dalla seconda in poi non c’era più nessuno. Però tanto bastava per far circolare la voce, il “pugliastro” funzionava e quando mi hanno proposto di portarlo al cinema ho toccato il cielo con un dito».Quello è stato il personaggio con il quale ti abbiamo conosciuto tutti, ti ha regalato il successo ma hai rischiato davvero di rimanerci impigliato.«È stato un errore di gestione mio, sicuramente, e dell’agente che mi seguiva. Pur di cogliere il momento e incassare cachet abbiamo accettato di tutto. Abbiamo girato dodici film in due anni con il “terrunciello”, ho pure scoperto che mi avevano fregato soldi, non avevano pagato le tasse, qualche amico mi aveva voltato le spalle. Ho incassato niente rispetto a quello che avrei potuto e nel frattempo il personaggio si era deteriorato, diciamo inflazionato. Di punto in bianco mi sono ritrovato solo senza sapere cosa fare. Non ho più lavorato, nelle rare interviste dell’epoca lanciavo messaggi del tipo “mi piacerebbe fare un film con registi emergenti, magari uno come Pupi Avati”. A un certo punto, a sorpresa, arriva la telefonata giusta.Pupi mi voleva per Regalo di Natale».È vero che il personaggio di Franco, il proprietario di cinema fregato da Carlo Delle Piane, giocatore di poker professionista, doveva farlo Lino Banfi?«Verissimo. Per fortuna Lino rifiutò – lo dico con grande affetto, gli voglio bene ma non credo che fosse unruolo per lui – e con quel film è ripartito tutto. Da quel momento ho lavorato con Comencini, Bertolucci, Salvatores. Grazie Lino!».E con Salvatores vinci pure l’Oscar…«Con Gabriele ci siamo conosciuti per caso, una sera ci ha presentati Paolo Rossi e siamo diventati amici.Lui mi propose una bellissima commedia di Altan per il teatro che non abbiamo mai fatto e invece decidemmo di produrre un film,Kamikazen, che ebbe un discreto successo. Sembrava finita lì quando mi chiama il produttore Gianni Minervini: mi dice, sai Diego ho un film in cui quattro ragazzi devono andare in Marocco a salvare un loro amico finito in carcere. Mi serve l’attore che sta al gabbio, vuoi farlo?Io leggo il copione, lo richiamo e gli rispondo: guarda, io lo faccio ma voglio essere uno dei quattro che va a liberare il tipo in Marocco. E ti dirò di più, ho anche il regista perfetto per questo film: si chiama Gabriele Salvatores. Era nato Marrakech Express».Che era assai diverso rispetto alla sceneggiatura originale…«Completamente diverso, ma questo se lavori con un regista intelligente come Salvatores è un fatto naturale.Ti faccio un esempio: nel film Ponchia, che sono io, ha un rapporto conflittuale con Paolino, interpretato da Giuseppe Cederna. Se leggi il primo copione del film, invece, noi due saremmo dovuti essere inseparabili, complici. In quel periodo con Cederna non ci prendevamo, ci stavamo sui coglioni a vicenda diciamo. Una sera, a cena, ne parliamo e diciamo a Gabriele: scusa, perché dobbiamo far finta? Se io e lui non ci sopportiamo, facciamo che anche Ponchia e Paolino non si reggono.Viene meglio, no? E così è andata.Ah, naturalmente ci tengo a precisare che oggi Giuseppe è uno dei miei amici più cari, gli voglio bene come un fratello».Poi arriva “Mediterraneo”, un film da leggenda. Quando avete saputo che era andato in nomination?«Eravamo in Messico, giravamoPuerto Escondido. Rappresentavamo l’Italia come miglior film straniero ma tra noi ci dicevamo sempre: ma figurati se vinciamo. Arriva la telefonata a Gabriele e ci organizziamo in fretta e furia per essere presenti a Los Angeles. Io in quel periodo ero in una forma strepitosa: vado in sartoria, affitto lo smoking. Scopro che è quello di Sean Connery per alcune scene dei suoi film. Oh, tu mi vedi così, ma io ho ritirato l’Oscar vestito da 007. E non c’è niente da ridere».Tocca parlare di calcio, del Milan, dei cinque derby persi quest’anno con l’Inter.«L’Inter era già forte, adesso è fortissima. Quest’anno vince tutto».Sa tanto di gufata.«Ti sembro uno che possa gufare l’Inter?».No, per carità.«Ah ecco».Ok, abbiamo raccontato cinquant’anni e passa di carriera.Ma c’è una cosa che davvero non rifaresti?«Guarda, nella vita di cazzate ne ho fatte tante. Ma se devo dirne una è stato mangiare senza regole. Ho mangiato troppo, è la mia grande debolezza, mi piace stare con gli amici davanti al buon cibo. Ma a volte esagero, perché tra lo stare in forma e l’opulenza ce ne corre. Però sto bene, dai, poteva andare peggio».