Robinson, 3 dicembre 2023
Biografia di Julia Margaret Cameron
È tutta colpa del carattere impossibile di Julia Margaret Cameron se noi italiani non possediamo un ritratto di Giuseppe Garibaldi firmato dalla pioniera e più celebrata fotografa dell’Ottocento. Era il 1864, e il popolarissimo eroe dei due mondi era in visita, sull’Isola di Wight, al poeta Alfred Tennyson, che gli chiese di piantare un albero nel suo giardino; quando una donna entrò come una furia, si gettò letteralmente ai suoi piedi implorandolo confusamente di seguirla. Irritato, scambiandola per una mendicante, il generale la scacciò. Dell’incontro tra i due grandi ci resta solo una incisione di fantasia.Come biasimarlo? Nell’unica fotografia non fatta da lei nella grande mostra che il parigino Jeu de Paume le dedica (col titolo Capturer la beauté e la cura di Lisa Springer e Quentin Bajac, fino al 28 gennaio 2024), Lady Cameron ha un volto severo, non amichevole, un’espressione pungente, uno sguardo che trafigge qualcosa che sta fuori dall’inquadratura. E un profilo da indiana, ma d’America, mentre lei era nata nell’India vera, a Calcutta, nel 1815. I suoi abiti rossi, indelebilmente macchiati come le sue mani dagli acidi nerastri dello sviluppo fotografico, spaventavano i bambini del circondario, che lei aspettava al varco per prelevarne uno, di forza, e obbligarlo a un pomeriggio di pose estenuanti, vestitoe ben spettinato da angioletto, nella sua Glass House, la serra dei polli da lei trasformata in studio fotografico.Quello che accadde in soli undici anni tra il 1864 e il 1875 a Freshwater, in quello spazio luminoso ma misterioso e magico, e nella adiacente carbonaia pure convertita in camera oscura, è un unicum della storia, non solo fotografica; una congiuntura astrale nell’autocoscienza di un’epoca, un teatro dell’immaginario che riveste, ma anche svela, le contraddittorie tensioni morali dell’establishment vittoriano. Cameron era predestinata al compito dalla sua biografia. Nata Julia Pattle, era figlia di un potente funzionario della Compagnia delle Indie, un uomo potente, che la più illustre nipote di Cameron, Virginia Woolf, definì «il più grande bugiardo dell’India». Sposò poi un altrettanto potente funzionario coloniale britannico, Charles Hay Cameron, giurista benthamita ma anche ricchissimo proprietario di piantagioni di caffè e caucciù a Ceylon. E fu madre di sei figli e figlie poi tutti in qualche modo coinvolti nell’impresa imperiale. Dopo aver studiato a Parigi e vissuto in India, Cameron si ritirò in madrepatria, finendo per riadattare un cottage su quell’isola in mezzo alla Manica, annoiandosi sontuosamente fino a quando figlio e nuora non le regalarono, per il suo quarantottesimo compleanno, quella scatolona di legno che poteva sfornare immagini e «alleviare la tua solitudine». Mai regalo fu più azzeccato. Per Julia, fotografare divenne ben più di passatempo: un’ossessione. Ci ha lasciato milleduecento immagini di grande formato, ora radunate da varie collezioni (quella del Victoria & Albert Museum la più cospicua) ed esposte a Parigi in originale e in quantità sorprendente; ma a dar rettaalla sua autobiografia incompiuta ne distrusse dieci volte tante, insoddisfatta dei risultati da autodidatta. Era una devozione, più ancora che una ossessione: «Ho maneggiato il mio obiettivo con un tenero ardore, al punto che è divenuto ai miei occhi simile a un essere vivente dotato di una voce, di una memoria, e di una forza creatrice».Ritratti. Tutti, solo ritratti. Nessun paesaggio, nessuna still life.«Aspiravo a cogliere la bellezza in tutte le sue forme», ma la trovò solo nei volti degli umani. Che però, per lei, necessitavano di una trasfigurazione. Quasi sempre. Tutti gli illustri frequentatori di Freshwater e dintorni vennero dunque reclutati come attori di un teatro di figurine, un museo delle cere, chiamati a impersonare personaggi del mito classico, delle Scritture, dei poemi romantici. Non si sottrassero Robert Browning, Charles Darwin, Alfred Tennyson, Thomas Carlyle, John Herschel e una quantità di altri eminenti vittoriani; ma anche popolani e cameriere. Panni drappeggiati, qualche accessorio kitsch ed ecco fissati sulla carta albuminata, guerrieri, madonne, sovrani, paladini arturiani, immersi in una luce sapiente e soffusa. Non piacquero. Le critiche, sicuramente misogine, dell’ambiente fotografico ufficiale furono impietose: «Le sue immagini hanno solo la scusante di essere opera di una donna». Lei faceva spallucce: «Critiche troppo ingiuste perché io me ne preoccupi». Sicura di sé quanto impulsiva, eccentrica, imprevedibile. Alla fine, il successo arrivò, in vita, con esposizioni internazionali e medaglie. Ma l’accusa più forte, quella di miopia, cioè di sbagliare costantemente la messa a fuoco, le restò addosso. Reagì da par suo: «Ma che cos’è poi la messa a fuoco, e chi può direquale sia la messa a fuoco legittima?». Diceva: quando sono soddisfatta dell’immagine che vedo sul vetro smerigliato, smetto di manovrare l’obiettivo. Questa caparbietà ha fruttato a lei, conservatrice e cattolica, diverse appassionate e postume riletture femministe: Cameron si sarebbe volutamente ribellata alle convenzioni fotografiche maschili del suo tempo, avrebbe impugnato con coraggio l’imperfezione, l’indeterminazione, avrebbe osato quei primissimi piani che costringono lo spettatore a tuffarsi nella soggettività di un volto (salvo poi nascondergliela dietro la maschera del mito…).Non si può fare a Cameron il torto di sottrarla al suo tempo e alla sua classe.Dopo tutto, i volti che ritraeva appartenevano tutti alla società vittoriana dell’era coloniale. E l’Impero non era un Eden soave. Cameron aveva schivato di poco i massacri del Grande Ammutinamento indiano del 1857. Davanti al suo obiettivo flou, quell’élite dominatrice trovò, nell’idillio dell’immaginazione, una via di fuga dalle sue responsabilità reali di gerente di un potere prosaico e implacabile. Ma secondo Virginia Woolf, che negli anni Venti riscoprì la prozia e le dedicò un libro memorabile, la visionaria Julia, tornata nel 1875 a vivere a Ceylon, morì serenamente guardando il cielo stellato, e la sua ultima parola fu «Bello!».