Domenicale, 3 dicembre 2023
Il Don Carlos di Schiller
pianto di solitudine del potente sconfittoDon Carlos. Verdi attinge per il suo personaggio dalle tinte pessimistiche al dramma di Schiller in cui la politica si intreccia all’intrigo amoroso nella Spagna del ’500. Alla corte tutti prima o poi si ritrovano nella condizione di tradire o di venir traditiFrancesco Maria ColomboBrescia e Amisano ©Teatro alla Scala Tetro scenario di corte. Un momento del «Don Carlo» In una pagina indimenticabile di Tonio Kröger Thomas Mann narra della passeggiata all’uscita da scuola del protagonista, l’adolescente Tonio, con il compagno prediletto, Hans Hansen. I due camminano sgranocchiando, da un cartoccio, delle caramelle di frutta, e Tonio cerca di raccontare all’amico riluttante la rivelazione del libro che ha letto da poco, il Don Carlos di Schiller. C’è un punto, dice, in cui nel dramma arriva la notizia, tale da sconvolgere i cortigiani adusi all’inflessibilità del sovrano, che il re Filippo II, il più potente monarca del mondo, ha pianto, perché si è sentito tradito nell’unico momento in cui ha lasciato aprirsi il suo cuore, fidandosi del marchese di Posa. È Tonio, in quel momento e a sua volta, ad aprire il proprio cuore: e verrà altrettanto deluso, perché la conversazione andrà a morire.
Tonio Kröger venne pubblicato nel 1903, quando il dramma di Schiller aveva da tempo conquistato la dignità di un classico nella cultura tedesca, e quando il tema più profondo che contiene, quasi nascosto dietro il fasto dell’ambientazione storica e degli intrighi politici e amorosi, era divenuto emergenza: si tratta della sofferente solitudine cui ciascuno è costretto da qualcosa di immenso ed oscuro, da un despota o da una macchina disumana che non ha volto né forma. L’oppressione dell’etichetta di corte nella Spagna cinquecentesca, l’incubo dell’Inquisizione, l’impossibilità di essere amati da chi si ama, il fallimento delle illusioni di libertà, sono tutti nomi dietro i quali si cela una necessità assoluta e inesplicabile, che disintegra l’uomo e dà scacco alla sua pretesa di gestire la realtà e il mondo. Un tema che nella civiltà austro tedesca di inizio Novecento diviene inesorabile. Scritto pochi anni prima della Rivoluzione francese e licenziato nell’ultima versione lo stesso anno della morte di Schiller, 1805, il Don Carlos era stato un simbolo per i sovversivi del ’48 (ma già nel 1791 aveva guadagnato al drammaturgo la cittadinanza onoraria della Francia): vi si leggeva soprattutto il grido di libertà, incarnato da Posa e dall’eroe o anti eroe eponimo stesso, Don Carlos, figlio di Filippo II, contro l’oppressione dei popoli fiamminghi ad opera della corona e contro il potere ecclesiastico, capace di assoggettare finanche il trono. In realtà i contenuti del dramma sono così complessi e fittamente intrecciati, a partire da alcuni nuclei tematici e narrativi, da confondersi l’uno nell’altro: il tema politico, l’intrigo amoroso, il serrato brusio velenoso della corte, la dichiarazione di amicizia e la sua messa in dubbio, l’infinita solitudine dei potenti, scivolano lambendo ciascuno dei personaggi anziché incarnarsi esemplarmente in essi: ne risulta una ragnatela di relazioni vere e fittizie, e nessun deus ex machina verrà a sciogliere l’intreccio. Filippo II, Don Carlos, Elisabetta di Valois, la principessa Eboli, il duca d’Alba, il marchese di Posa: tutti prima o poi si ritrovano nella condizione di tradire o di venir traditi, chi per scelta chi per necessità. Ciascun moto dell’anima viene smentito non solo dalla complessità dell’accadere e dai suoi criteri prescrittivi (il potere della corona, il vincolo matrimoniale, la ragion di Stato), ma da sé stesso, da un rovello che lo soffoca e prima o poi lo spenge.
La scena del dramma è sita tra Madrid e Aranjuez, ma in realtà il luogo creato da Schiller è una camera astratta le cui porte sono chiuse e dove le diverse figure si dibattono in modo così compatto da risultare interpretabili solo provvisoriamente, solo erroneamente. In luogo dei buoni e dei cattivi, a fungere da dramatis personae sono lo sviamento degli ideali, l’onta, lo smacco. Lo spettatore, così come l’autore, scorge l’intrico dall’alto e segue la trama vedendo i nessi del dramma serrarsi e allentarsi fino a quando il quadro intero della realtà sfugge per sempre: nessuno è padrone delle proprie azioni e quando qualcuno, come il re che Tonio Kröger portava dentro il suo cuore, dà credito a una mano tesa, inevitabilmente conosce il disinganno: e piange. Ciò che Verdi chiamava “il retaggio d’ogni uom”, il pianto che il re definisce “spettacolo osceno” prima di cedervi lui stesso, è nel Don Carlos di Schiller il punto abissale dell’umana sconfitta, e Filippo II che piange è il vero protagonista del dramma, proprio come sarà nel Don Carlos di Verdi. Perché tutto questo avviene? Se nell’opera lirica il punto d’osservazione è il pessimismo verdiano, la sua disingannata visione del mondo, nel dramma di Schiller tutto è più labile e sottile. Il rigore obbligante della corte spagnola, per il quale ogni evidenza è rovesciata («Dove tutti amano, Carlos non può odiare. Non può contraddirsi con una eccentricità simile» secondo Domingo, confessore del re), e l’oppressione da parte del potere religioso, sono certamente gli agenti “negativi” dell’accadere, ma sono anche l’unico criterio normativo per il quale la realtà sia interpretabile e, illusoriamente, vivibile.
«Finché dura il carnevale rispettiamo le regole del gioco e rimaniamo fedeli al nostro ruolo obbligandoci a una ridicola serietà per non turbare l’esaltazione del popolo», dirà Carlos. Se venissero rimossi i vincoli che li opprimono, ai personaggi del dramma mancherebbe l’unica ringhiera cui aggrapparsi: è questa contraddittorietà, che non fa parte della visione di Verdi, a specificare l’unicità dell’opera di Schiller. Se lo sguardo dello spettatore può fissarsi dall’alto su questo panorama di rovine, esso però trova un ulteriore punto di prospettiva, più ravvicinato. Il lettore di Don Carlos riconosce inevitabilmente che la metamorfosi di tutte le emozioni contenute nel dramma non è solo metamorfosi dei personaggi, ma del lettore stesso che si carica di ogni speranza, di ogni tensione e aspirazione e sofferenza. E se lo sguardo dall’alto riconosce l’insensatezza del tutto, lo sguardo ravvicinato trae dagli infelici Carlos, Filippo, Elisabetta un’intensità emotiva senza pari, conquistata per sempre dalla poesia.