Tuttolibri, 3 dicembre 2023
Emma Dante e le favole
La festa dei morti in Sicilia è una cosa seria, importante. Si cucina moltissimo, s’imbandisce una tavolata allegra e colorata, piena di dolci, per la notte tra il primo e il due novembre, si lascia la porta aperta e si va a dormire. I morti s’accomodano, tutto è per loro. Lasciano dei regali, i bambini li scartano al mattino, sono giocattoli che portano con sé quando, poche ore dopo, insieme ai genitori, vanno in visita al cimitero. Fantasmi, zombie, revenant, horror, aldilà e aldiquà non c’entrano: ci sono i vivi e i morti, insieme. «Il campo santo diventa un posto di schiamazzi e giochi, non c’è niente di più bello per celebrare la vita di chi se n’è andato e dirgli grazie per quello che ha lasciato» dice Emma Dante, regista, drammaturga, attrice, notissima per il suo teatro intenso, il modo unico che ha di raccontare la vita delle donne, la tragicommedia di nascere e crescere in famiglia, a Palermo – «i miei testi li scrive Palermo», ha detto una volta. La festa dei morti è il suo ultimo libro, raccoglie tre novelle delle 50 contenute ne Lo cunto de li cunti, il Decamerone per bambini che Giambattista Basile pubblicò nel 1636, a Napoli, e che da allora non smette di venire riscritto e rappresentato, con un’affascinante costante: l’ambientazione in un tempo senza data, inattuale, un tempo di favola.Dante, perché nella sua riscrittura di Basile non c’è il suo, il nostro presente?«Perché nelle favole c’è già il presente: è per questo che, quelle riuscite, continuano a essere archetipi, di generazione in generazione. Cappuccetto Rosso è un racconto ancora perfetto. La mamma le dice di stare attenta e non fermarsi mai, perché nel bosco potrebbe incontrare il lupo: le dice di non godersi la sua libertà di bambina perché se lo farà, verrà divorata. Invece, lei si ferma ed è il lupo a morire. La morale, allora, non è: attenzione, bambine, ma l’opposto. Fa vincere una ragazzina che rischia, disubbidisce e s’avventura da sola nel bosco».È legittimo interpretare una favola con la chiave del proprio tempo?«È doveroso. Se non lo facessimo, quelle storie morirebbero nella muffa. Forse, più che di chiave, è corretto parlare di sguardo. Negli anni Cinquanta avrei visto, in Cappuccetto Rosso, la salvezza e non la punizione; il lieto fine e non la morale».È così importante la morale?«Nel Pentamerone non c’è favola, anche la più breve, che non cominci con la morale. Basile la dichiara subito: ecco perché sto scrivendo questa storia, ecco cosa intendo dire».Perché non ha spostato l’ambientazione e tutte le storie sono rimaste al sud?«Prima di tutto, per fedeltà all’originale. E poi volevo ricreare un mondo dove poveracci e principi soffrono allo stesso modo: un sud lacerato e ferito che fa anche molto ridere. Un posto poetico e grottesco, che non ho avuto bisogno di inventare: esisteva, esiste».Che succede quando si cambia la morale di una favola?«Si scade nel moralismo. Le storie vengono edulcorate e rabbonite soprattutto attraverso il perdono: nelle versioni originali, i cattivi vengono sempre puniti, talvolta anche violentemente. Collodi fece finire Pinocchio con la sua morte per impiccagione. Poi gli venne chiesto di intervenire e lui scrisse quel finale geniale, con il burattino che diventa bambino. Anche il lieto fine è spesso una forzatura posticcia: Andersen non fa sposare la Sirenetta e il principe, ma fa trasformare lei in spuma del mare. La scortecata di Basile racconta di una centenaria che si fa scorticare da sua sorella per tornare giovane: naturalmente, muore. Se avessi addolcito il finale, non ci sarebbe stata morale, che è l’ossatura della storia».E delle storie che vengono corrette per non essere offensive cosa pensa?«Penso che non vogliamo più imparare cos’è la vita e cos’è l’uomo».Cos’è l’uomo?«Un animaletto. Un essere puramente istintuale. A cambiarlo è l’educazione, la prima, quella che avviene in famiglia e che è un apprendistato d’amore. È lì che, se viene riconosciuto, accudito, abbracciato, acquisisce virtù che gli permettono di vivere con gli altri».Crede che esista una letteratura per l’infanzia, che sia importante separare le storie per i bambini da quelle per gli adulti?«I bambini sono gli esseri più vicini a Dio, perché sono animali, idioti, puri. La letteratura a loro deve per forza essere speciale: nascono tabula rasa, possono diventare qualsiasi cosa: è fondamentale che ricevano una guida. I bambini possono fare molto per una comunità: possono fare un bene inedito e assoluto, migliorando tutto».Si sente in dovere di rendere educativo il suo lavoro?«Quando faccio teatro e scrivo storie, le indirizzo sempre ai bambini che ci portiamo dentro. Tutti gli adulti hanno, al fondo di sé, la propria infanzia, i bimbi e le bimbe che sono stati e che si sono addormentati prima dell’uscita dalla famiglia: io cerco di svegliarli».Mi racconta la bambina che porta dentro di sé?«Quando lavoro è sempre sveglia, sul palco si scatena. A lei devo tutto: alle voci che sentiva, ai profumi che riconosceva, allo stupore che provava quando entrava nelle stanze e le sembravano enormi. Il palcoscenico vuoto mi piace tanto perché mi ricorda il modo in cui la grandezza delle stanze mi sbalordiva e sopraffaceva quando ero piccola».Perché ha detto che “le spalle di Kantor sono il teatro”?«Quando ho avuto la fortuna di vederlo all’opera in scena, prima che morisse, Tadeusz Kantor (regista teatrale polacco, ndr) dava le spalle alla platea e interveniva quando qualcosa non andava, per aggiustare. Ho sempre pensato che lo facesse per dimostrare che, per badare al pubblico, non doveva ascoltare il suo giudizio, ma preoccuparsi di mettere a posto le cose per fargliele vedere meglio, perfezionando continuamente la sua ricerca. Stava con il pubblico, e quando l’artista sta con il pubblico attraverso la sua opera, anziché fare un’opera per il pubblico, diventa parte di una comunità che in quel momento scopre qualcosa in più di se stessa».Lei come capisce di riuscirci?«Quando divento testimone. E allora metto una distanza tra il mio ego e quello che sta succedendo, perché è più forte di me e non lo sto facendo da sola: è come vedere lo spettacolo di un altro».Che lavoro è fare teatro?«Cercare un linguaggio. Cercare di capire».Le parole scritte per essere recitate sono diverse da quelle scritte per essere lette?«In questo momento sto lavorando alla riduzione teatrale della terza novella, Re Chicchinella, l’unica del libro che non ho mai portato in scena. Sto partendo dal testo e sono già in crisi totale. Il teatro mi prende sempre a schiaffi, è il mio grande genitore, il mio educatore, e polverizza tutti i miei principi e le mie certezze. Mi sta benissimo, per faticoso che sia: mi spaventano le persone che hanno dei principi, delle convinzioni. Sul palco le parole fanno i conti con i corpi che le pronunciano e che, a volte, le rigettano. E allora bisogna rifare tutto da capo, trovare l’anima di quello che si vuole dire, che è molto più difficile di trovare la maniera giusta per dirlo: giusto non esiste, non in teatro, non nel racconto».Il dialetto è d’aiuto?«Eccome. E poi il dialetto di Basile è un napoletano molto particolare, barocco, forbito, spesso incomprensibile. Io ho provato, scrivendo, a normalizzarlo, perché volevo che arrivasse il più possibile ai lettori».Però non c’è testo a fronte.«E neanche glossario. Abbiamo scelto così, con l’editore, perché abbiamo pensato che dovesse arrivare il senso generale in modo primitivo, senza spiegazioni».La chiarezza è sopravvalutata?«Dipende. Nel confronto è fondamentale: più chiaro è il tuo pensiero, più è inequivocabile, quindi sei salva. La poesia invece è fatta di parole che possono smuovere e arrivare al punto, senza venire capite. Il teatro ha molto a che fare con la poesia: quando scrivo drammaturgie, penso quasi sempre di più alla poesia che al testo parlato».Davvero il teatro muore mentre si fa?«Sì. Ma niente è più incisivo di uno spettacolo teatrale. Vedere Antigone, a Siracusa, quando ero una studentessa di giurisprudenza, mi cambiò la vita: lì decisi che avrei fatto teatro».Chiara Valerio ha detto che la sorella di Giulia Cecchettin è come Antigone.«Ed è vero. Ha reso politica la morte di sua sorella».Servirà?«Il cambiamento al quale stiamo tutte e tutti lavorando avverrà, ne sono sicura. Ma sono altrettanto sicura che io e lei non lo vedremo. Adesso, la cosa che mi tormenta è che le ragazze come Elena Cecchettin e le loro famiglie, restano sole. Noi, presto o tardi, le dimentichiamo. Quando si uccide una donna, muore una comunità».Occuparsi del fantastico quando tutto sembra sgretolarsi è una fuga?«È il solo modo per superare le tragedie».