La Lettura, 3 dicembre 2023
Nelson Mandela e il Sudafrica
«Noi, popolo del Sudafrica, riconosciamo le ingiustizie del nostro passato; onoriamo coloro che hanno sofferto per la giustizia e per la libertà della nostra terra; rispettiamo coloro che hanno lavorato per costruire e sviluppare il nostro Paese; crediamo che il Sudafrica appartenga a tutti coloro che ci vivono, uniti nella diversità». Così recita l’incipit della Costituzione sudafricana. A scriverla, insieme ai Padri del nuovo Paese, un uomo che poteva stare dalla parte degli aguzzini. E, invece, ha scelto quella più scomoda. Così ha subito l’oppressione e l’odio. Ha perso un braccio e un occhio in un attentato. Nella sua auto gli uomini dei servizi segreti di Pretoria avevano messo una bomba che esplose quando lui aprì la portiera. Era in esilio in Mozambico. Ma, per gli architetti dell’apartheid, anche fuori dal Sudafrica le sue parole potevano aprire una breccia nel muro dell’odio. Il suo nome è legato a un premio che la Fondazione di Amal e George Clooney attribuisce ai paladini dei diritti umani: l’Albie Awards. Lui era un amico di Nelson Mandela. Ancora oggi Albie Sachs, 88 anni, ha la stessa energia di quando scendeva in strada per difendere i più deboli e continua a sprigionare una luce che ci fa sperare in un mondo migliore. Già da adesso.
Mandela ricevette il Nobel per la Pace con Frederik Willem de Klerk trent’anni fa, nel 1993; morì vent’anni dopo, il 5 dicembre 2013. Come e quando lo conobbe?
«Lo incontrai quando ero un giovane studente di Giurisprudenza a Città del Capo. Avevo 17 anni. Aderii subito alla campagna contro le leggi pro-apartheid (Defiance of unjust laws) promossa nel 1952 dall’African National Congress (Anc). Il mio primo atto di rivolta fu sedermi sulle panche dell’ufficio postale nei posti destinati solo ai neri. Io di quel gruppo ero il volontario numero 8.553 e Mandela il numero uno. È stata la lotta a unirci. Di lui, uno dei pochissimi avvocati neri in Sudafrica, sapevo solo che era disposto a sacrificare la carriera per consentire al suo popolo di conquistare i propri diritti. Poi, ogni volta che andavo a Johannesburg, facevo visita e rendevo omaggio all’unico studio legale gestito da neri nel Paese».
Quale fu la sua prima impressione del futuro leader del Sudafrica?
«Mi colpì la sua immensa cordialità unita a una ferrea risolutezza. La persona che Mandela ammirava di più era il suo socio nello studio legale, Oliver Tambo, che era persino più tranquillo e gentile di lui. Formavano una coppia fantastica e nutrivano grande ammirazione l’uno per l’altro. Ho apprezzato il calore con cui mi hanno accolto e li ho accettati con gioia come miei leader».
Di che cosa parlavate?
«Lui e Tambo mi chiedevano della lotta a Città del Capo e poi, indicando la folla di clienti dentro lo studio che richiedeva la loro attenzione, si scusavano perché dovevano ascoltarli. Si assicuravano sempre che ricevessi una tazza di tè. Il nostro rapporto poteva sembrare quello con un giovane bianco idealista che voleva sovvertire senza pagare dazio le dinamiche del Sudafrica razzista».
Quella di Mandela è stata una vita spesa per difendere un ideale: la libertà. Ma c’erano dei momenti da dedicare a sé stesso?
«Madiba non ha mai avuto tempo libero, io un po’ di più e lo spendevo scalando la Table Mountain a Città del Capo. Però sapevo che gli piaceva il pugilato e fece anche degli incontri sul ring. E anche che guidava un’auto niente male. Negli anni successivi al suo rilascio dal carcere e al mio ritorno dall’esilio, ci incontravamo spesso. In quelle occasioni persino le battute davanti a una tazza di tè prendevano una piega seria».
L’uomo della pace, il leader che non si è mai vendicato: che cos’ammirava di più in lui?
«La sua sensibilità e la capacità di raggiungere tutti. Di creare un legame. Anche con chi lo aveva messo in carcere. Odiava l’oppressione, ma sapeva distinguere: si impegnava allo spasimo per capire anche le ragioni di chi stava dall’altra parte, piuttosto che odiare l’aguzzino. Ha dato un meraviglioso esempio. Nel nuovo Sudafrica non avrebbero dovuto esserci divisioni: dovevamo trovare un modo per fornire una leadership inclusiva e basata su principi all’intera nostra società, compresi gli oppressori».
Il Sudafrica post-apartheid non è ancora diventato la Rainbow Nation, la «nazione arcobaleno» che sognavate?
«La gente spesso mi chiede se questo sia il Paese per cui la mia generazione ha combattuto. Vedono che ci sono ancora la disuguaglianza, la disoccupazione e la criminalità. Io dico che sì, questo è il Sudafrica per cui abbiamo combattuto, ma anche che no, non è la società per cui abbiamo combattuto. Dobbiamo fare i conti con il Paese che abbiamo per ottenere la società che avevamo in mente. Ora ci sono una Costituzione saldamente radicata, elezioni libere ed eque, una stampa libera, un sistema giudiziario forte e una società civile vivace. Lo dimostra il fatto che il nostro settore più in grande crescita è quello dei cabarettisti! Non siamo una società giusta né una società sicura. Ma siamo una società aperta. E dobbiamo usare i nostri diritti per ottenere l’equità e la sicurezza alle quali abbiamo diritto».
Che cosa direbbe Mandela del mondo di oggi, dove guerre e ingiustizie dominano ancora?
«Direbbe che sono gli esseri umani a fare la guerra e gli esseri umani a dover realizzare la pace. Aggiungerebbe che l’esperienza sudafricana dimostra che nessuna situazione è irrisolvibile e che, in definitiva, le parti in conflitto devono accettare che non esiste alternativa a negoziati dignitosi tra di loro».
L’ultima volta che vi siete visti?
«È successo appena concluse il suo mandato presidenziale mentre io ero ancora giudice della Corte costituzionale. Era stato proprio lui a nominarmi. Stava arrivando a una cena a Città del Capo con la sua compagna, Graça Machel. Vedendomi avvicinare stese le braccia per ricevermi. Ma io, invece, abbracciai subito Graça, che avevo conosciuto in Mozambico. Era sorpreso e divertito dal fatto che lei, e non lui, fosse al centro dell’attenzione. Ma la prese molto bene».