6 novembre 2023
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Biografia di Khalifa Haftar (Khalifa Belqasim Haftar)
Khalifa Haftar (Khalifa Belqasim Haftar), nato ad Agedabia (Cirenaica, Libia) il 7 novembre 1943 (80 anni). Feldmaresciallo. Comandante supremo dell’Esercito nazionale libico (dal 2 marzo 2015) • «È il 26 agosto del 1969: un giovane ufficiale di soli 25 anni, Muammar Gheddafi, a capo di un gruppo di giovani militari guida un colpo di Stato per rovesciare la monarchia di re Idris. L’operazione ha successo e avviene in modo tutto sommato indolore. Nel circolo dei “cospiratori” c’è anche lui, Khalifa Haftar, allora giovane cadetto formatosi in Unione Sovietica. Il 1° settembre dello stesso anno viene proclamata la Repubblica. […] Con Khalifa Haftar il Rais instaura un solido legame; lo pone subito ai vertici della struttura militare del Paese. Il sodalizio con il sempre più capriccioso colonnello Gheddafi sembra tenere anche negli anni seguenti. Ad Haftar viene affidato il compito di comandare le truppe libiche a supporto di quelle egiziane nel tentativo di riconquista del Sinai occupato da Israele, nella guerra del Kippur (1973). Ed è sempre il generale Haftar a essere incaricato nel 1987 di comandare quella che doveva essere una guerra lampo contro il Ciad, una vittoria facile, e che invece si tramutò in una disfatta per l’esercito libico. In questo conflitto, conosciuto come guerra delle Toyota (dal nome delle veloci jeep dotate di mitragliatrice su cui si spostavano i soldati del Ciad), un decimo dell’esercito libico viene sterminato e migliaia di militari sono fatti prigionieri, tra cui il generale Haftar. Gheddafi lo sconfessa. E qui avviene la svolta. Durante la detenzione forma un contingente di circa duemila prigionieri libici, la “Forza Haftar”, equipaggiata poi dagli Stati Uniti, con un obiettivo preciso: rovesciare il regime libico. Haftar è ora un nemico di Gheddafi e il leader del Fronte per la salvezza della Libia, sostenuto dalla Cia. Solo grazie a un ponte aereo organizzato dalla Cia – un’operazione ancora poco chiara – Khalifa viene trasportato dal Ciad in Zaire con 350 dei suoi uomini più fedeli, per poi partire alla volta degli Stati Uniti, dove gli viene rilasciata la cittadinanza» (Roberto Bongiorni). «Khalifa Haftar si è stabilito nell’amena cittadina di Vienna, in Virginia, a otto chilometri dalla centrale della Cia di Langley. Troppo facile per Gheddafi fare uno più uno: più volte attaccò il suo ex fedele “compagno della prima ora” accusandolo di essere un agente segreto pagato dalla Cia. L’accusa è stata sostenuta nel libro Manipulations africaines pubblicato nel 2001 dal Monde Diplomatique, nel quale si raccontava che negli anni Novanta Haftar, con finanziamenti dell’intelligence americana, “creò una milizia libica con lo scopo di affrontare frontalmente il regime di Tripoli”. Ci sono poche notizie sulla sua attività negli anni successivi. […] Il silenzio prosegue durante tutto il corso della “rivoluzione libica” iniziata nel febbraio 2011, nella quale sia Haftar sia i suoi uomini – prontamente riportati a Bengasi dagli Stati Uniti – non si distinguono in particolar modo nelle cronache dei (rari) scontri egemonizzati dalle varie milizie. L’Esercito nazionale libico, nonostante la sua pomposa denominazione, ha un ruolo marginale sul terreno. […] A sorpresa, però, nel marzo 2011 un portavoce delle forze armate ribelli annuncia che Khalifa Haftar è il nuovo “comandante in capo” delle forze ribelli al posto di Abdel Fattah Younes, ex responsabile della Sicurezza di Gheddafi, da lui inviato a Bengasi per domare la rivolta e però subito passato coi ribelli. Il Consiglio nazionale transitorio libico (Cnt), massimo organo politico della rivolta, però smentisce la nomina (evidentemente forzata dagli Stati Uniti). Ma Haftar non desiste, e, dopo che Fattah Younes è assassinato a Bengasi nel luglio del 2011 da “mano amica”, il 18 novembre 2011 viene indicato come capo di stato maggiore delle rinate Forze armate libiche da un “manifesto” firmato da 150 ufficiali. Il suo prestigio dopo la sfortunata avventura in Ciad, unito agli interessati consigli dei partner americani, conta ancora qualcosa nella Libia del post-Gheddafi. La carica gli viene assegnata, ma pochi mesi dopo viene mandato in pensione e viene sostituito dal generale Abdel Salam Al Obeidi. Il 2 febbraio 2014 Haftar ritorna però sulla scena e annuncia tronfio e trionfante un tragicomico colpo di Stato: intervistato da Al Arabiya, annuncia che i militari ai suoi ordini “controllano tutti i gangli del potere a Tripoli” e ingiunge lo scioglimento del governo e del Parlamento e una road map in cinque punti: di fatto, prende il potere. Ma non è vero nulla. A Tripoli regna la calma, e il governo non impegna fatica per dimostrarlo. Haftar viene inseguito da un mandato di cattura e ripara in Cirenaica» (Carlo Panella). Poco dopo, «a maggio, fa partire l’operazione Karama [“dignità” in arabo – ndr], per contrastare il terrorismo islamico e prendere il controllo della Libia, […] anche se l’Europa e l’Occidente hanno già scelto Fayez Al Sarraj» (Lorenzo Vita). «Fu durante l’operazione Karama che Haftar guadagnò molta della credibilità di cui gode oggi a livello internazionale: dentro il settore militare dell’aeroporto di Bengasi in quegli anni c’erano forze speciali francesi e americane, per dare manforte, e anche un piccolo contingente di incursori italiani del Nono Col Moschin come “osservatori”. Nota: la battaglia fu vinta in tre anni, ma interi quartieri di Bengasi furono ridotti in macerie» (Daniele Raineri). «In questo periodo, Haftar ottiene il consenso di importanti potenze mediorientali: Egitto ed Emirati Arabi Uniti in primis, poi anche l’Arabia Saudita. Costruisce, sembra, rapporti con Israele. Ma è soprattutto dalla Russia che riceve il placet […] per continuare la sua offensiva. Vladimir Putin considera Haftar la sua testa di ponte in Libia, soprattutto per ottenere di nuovo quei contratti stipulati ai tempi di Gheddafi e polverizzati dalla guerra civile. Ricevuto a bordo dell’incrociatore russo Kuznetsov, incontra il ministro della Difesa, cui promette una base russa in Libia. In Francia, Emmanuel Macron lo riconosce quale leader libico insieme al presidente Fayez Al Sarraj. La rete internazionale di Haftar si fa estesa. Dopo anni di offensiva, assume un ruolo di peso in Libia, e sono molti gli attori mediorientali che puntano su di lui piuttosto che su Sarraj» (Vita). «Lo scontro tra Haftar, uomo forte della Cirenaica, e il premier di Tripoli Fayez Al Sarraj è il riflesso della complessa partita giocata da Italia e Francia per il controllo politico ed economico del Paese. Macron tenta da tempo di strappare all’Italia l’iniziativa politica nell’ex colonia» (Gian Micalessin). Dopo una serie di inutili tentativi di conciliazione promossi alternativamente dalla Francia e dall’Italia, nell’aprile 2019 Haftar diede inizio a un’offensiva militare con la quale intendeva conquistare la Libia occidentale, e soprattutto Tripoli. «Il generale Khalifa Haftar, che comanda le forze che assediano la città di Tripoli, ha creato una narrazione chiara della guerra civile fin dall’inizio. Da una parte ci sono lui e i suoi uomini impegnati in una campagna per liberare il Paese dalle milizie che compiono azioni criminali o sono in combutta con i terroristi islamisti o spesso entrambe le cose. Dall’altra, appunto, ci sono le milizie, e per questa impostazione molto furba può sempre proclamare che “è necessario ripulire la Libia dalle milizie” e nessuno gli può rispondere che, no, non è vero. Ha anche chiamato l’offensiva contro Tripoli “Toufan al Karama”, l’Inondazione di dignità, in modo che fosse un innesto ideale sull’operazione Karama, l’operazione Dignità» (Raineri). «L’esercito dell’allora governo di accordo nazionale libico di Fayez Al Sarraj combatteva contro i mercenari di Haftar, fra cui i russi di Wagner, […] egiziani, sauditi ed emiratini. Solo l’intervento di altri miliziani, soprattutto siriani, armi e droni armati inviati dalla Turchia ha ribaltato la situazione sul terreno consentendo alle forze di Sarraj di sgominare l’assedio di Tripoli e riguadagnare tutto l’Ovest (la Tripolitania) fino a Sirte. È in questa città che fornisce l’accesso alla zona dei pozzi petroliferi e di gas sulla terraferma e nel mare che passa la linea rossa imposta da Haftar. Ma è Bengasi il luogo simbolo di una possibile riconquista dell’unità nazionale, che […] rimane lontana» (Roberta Zunini). Sebbene la guerra si sia conclusa nel giugno 2020 con la sconfitta di Haftar, nonostante i vari tentativi di conciliazione promossi soprattutto dall’Onu, la situazione in Libia rimane tuttora in fase di stallo, con le elezioni presidenziali nazionali periodicamente indette e puntualmente rinviate. «Potrebbe avere una certa solidità la tesi, sostenuta dalla diplomazia italiana, che tra Dbeibeh [l’attuale primo ministro libico Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh, subentrato nel 2021 a Fayez Al Sarraj – ndr] e Haftar ci sia un patto di non belligeranza per arrivare entrambi alle elezioni con i galloni di candidati alla guida della Libia finalmente unificata. […] Entrambi cercano una legittimazione, perché non potrebbero candidarsi: Dbeibeh perché secondo gli accordi di Ginevra avrebbe dovuto ricoprire l’interim senza poi gareggiare per le elezioni; Haftar perché è un militare (ma potrebbe svestire un mese prima la divisa)» (Ilario Lombardo). «Di recente, […] alcuni segnali hanno fatto sperare nell’inizio di una nuova era per la Libia e i libici. Khalifa Haftar ‒ l’uomo forte dell’Est ‒ e il primo ministro Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh, a capo del Governo di unità nazionale che rappresenta l’Ovest del Paese, sembrano aver messo da parte l’ascia di guerra per collaborare in un processo di normalizzazione delle reciproche relazioni. Nel luglio 2022, dopo la fine degli ultimi scontri nella capitale, con la mediazione degli Emirati Arabi Uniti, le due parti avevano raggiunto un tacito accordo che ha portato alla nomina di Farhat Bengdara (uomo gradito ad Haftar) come direttore della National Oil Corporation (Noc). Da allora si è instaurato un fragile equilibrio tra Cirenaica e Tripolitania, che prevede una più equa ripartizione dei proventi del petrolio, utile anche per un maggiore dialogo tra le due parti. Nel frattempo, seppure tra mille difficoltà, sono continuati i dialoghi del cosiddetto Comitato 6+6, costituito da sei esponenti dell’Alto consiglio di Stato (Hcs, High Council of State) e altri sei della Camera dei rappresentanti di Tobruk (Hor, House of Representatives) per discutere sulle leggi elettorali necessarie per le elezioni che si dovrebbero svolgere entro il 2024. Un percorso difficile. […] Tuttavia, con un po’ di ottimismo, la strada sembrava quella giusta. Purtroppo, lo scorso agosto la comunità internazionale si è “risvegliata da questo sogno”. […] Sul piano interno, tutto ha avuto inizio il 15 agosto quando sono iniziati violenti combattimenti tra due delle più importanti milizie della capitale. […] Il bilancio è di 55 morti e 146 feriti. Al di là della gravità dell’accaduto, va sottolineato che questo episodio testimonia la perdurante ingovernabilità dell’Ovest libico, ancora in preda alle diatribe tra milizie che spesso sfuggono al controllo dell’autorità centrale. […] Ad aggiungere benzina sul fuoco, non possiamo non menzionare il disastro causato dall’uragano Daniel, che ha colpito il Paese e ha messo in ginocchio soprattutto la città di Derna nell’Est libico. Una tragedia che va ad aggravare la già pesante situazione interna. […] Non va meglio sul piano “internazionale”. Lo scorso 29 agosto sono scoppiate nuove tensioni a Tripoli a causa di un incontro tra la ministra degli Esteri libica, Najla Mangoush, e l’omologo israeliano Eli Cohen. Un vertice tenutosi a Roma il 23 agosto e che, almeno nelle intenzioni iniziali, doveva rimanere segreto. […] Anche in questo caso resta ancora tutto da capire, ma sicuramente il caos generato da questo evento non è un punto a favore per la pacificazione del Paese e per la realizzazione del percorso elettorale» (Michela Mercuri). «A quasi 80 anni, […] Khalifa Haftar soffre di demenza e da tempo è costretto a cure periodiche in una clinica in Francia. Per questo, molti degli affari gestiti dal generale sono diventati esclusiva dei suoi figli. Di Saddam, in particolare, che deve il suo nome alle simpatie che il padre nutriva per l’allora dittatore dell’Iraq. Un giovane che sfugge a qualsiasi definizione e che forse proprio per questo, in una terra di nessuno come la Libia, aspira a essere il prossimo leader dell’Est. […] Per chiunque oggi volesse tentare di ottenere qualcosa in Cirenaica, che sia un contratto per una fornitura di greggio o un’intesa di massima per arrivare a elezioni o un accordo per frenare le partenze dei migranti, sarebbe impensabile non fare i conti con Saddam. […] Le informazioni sul nuovo, vero interlocutore della Cirenaica sono una collezione di crimini – tutti documentati dalle Nazioni Unite e dalle ong – commessi nelle vesti di comandante di una delle più potenti milizie libiche, la Tariq Ben Zeyad, a sua volta ramificata in altri sottogruppi armati e con ottimi rapporti con i mercenari russi della Wagner. […] Gli interlocutori europei vedono in Saddam “il preferito” del generale della Cirenaica. “Credono che Saddam sia sinonimo di continuità, un antidoto al caos. Ciò che davvero fa paura agli europei è che in Libia qualcosa scombini l’attuale rapporto di forze”, dice […] Tarek Megrisi, ricercatore allo European Council on Foreign Relations. […] A fare scattare la scintilla nel Paese potrebbe essere proprio la morte di Khalifa Haftar, che in molti reputano non troppo lontana. “Ma considerare Saddam, o l’altro fratello Khalid, come i successori del generale è un errore, frutto di un’analisi politica superficiale – secondo l’analista del think tank di Bruxelles –, perché non si tiene conto che nella regione Saddam non riscuote le simpatie di molti”» (Luca Gambardella) • Ignote le sue effettive condizioni di salute. Nell’aprile 2018, mentre era ricoverato in una clinica di Parigi, circolò insistentemente la notizia della sua morte, con tanto di speculazioni circa la causa del decesso (una grave insufficienza cardiaca o un tumore cerebrale), prima che essa fosse clamorosamente smentita, e che lo stesso Haftar tornasse in areo a Bengasi, pochi giorni dopo, in condizioni fisiche apparentemente normali • Almeno sei figli maschi e una femmina: quattro dei maschi vivono in Libia, gli altri due e la femmina negli Stati Uniti, in Virginia. «Nella Lna [l’Esercito nazionale libico – ndr], Haftar padre ha affidato due brigate a due figli: Saddam (nato nel 1987) guida la brigata Tariq Ben Zeyad. Suo fratello maggiore Khalid la 106. Saddam è stato mandato in una scuola militare giordana e promosso immediatamente capitano nel 2016 e poi colonnello nel 2019» (Vincenzo Nigro) • «Perentorio, enigmatico, sfuggente, ma anche camaleontico e provocatorio» (Francesco Semprini) • «“Operazione Dignità”: l’ha inventato lei, questo nome? “Certo. Ci sono due parole: ‘operazione’, che significa il percorso militare per raggiungere un risultato; ‘karama’, che nasce dalla domanda ‘di che cosa abbiamo bisogno?’. L’ho chiesto ai miei ufficiali. Molti suggerivano il nome d’Omar Mukhtar, l’eroe libico. Ma quello che stiamo affrontando è più di quel che affrontò Mukhtar. ‘Dignità’ è una parola che dà la speranza in qualcosa che i soldi o il petrolio non ti possono dare”» (Francesco Battistini) • «Nel cuore, un antico condottiero dell’Islam: “Khalid Ibn Al Walid. Lo conosce? È il più grande stratega della storia. Prima combatté i musulmani, poi si convertì e si mise con loro. Senza perdere mai una battaglia. Ancora oggi uso certe sue tattiche”» (Battistini) • «C’è un fraintendimento a proposito del feldmaresciallo libico Khalifa Haftar. […] È vero che Haftar lotta contro un tipo di islamisti, ma abbraccia allo stesso tempo un altro tipo di islamisti (“abbraccia” nel senso che li favorisce, ne riceve appoggio e intrattiene con loro un’alleanza vantaggiosa), e da quando c’è lui al potere la città di Bengasi – che è il suo centro operativo – è diventata molto più rigida di prima dal punto di vista religioso. Questi islamisti pro-Haftar sono i salafiti cosiddetti quietisti, vale a dire che seguono un’interpretazione dell’islam che chiede loro di stare sempre e comunque dalla parte di chi detiene il potere e quindi anche di schierarsi contro gli islamisti eversivi – quindi contro i gruppi che vogliono scalzare le autorità in nome della religione, siano essi i Fratelli musulmani oppure lo Stato islamico. […] Il risultato è che nell’est della Libia molti aspetti della vita di tutti i giorni cadono in modo progressivo sotto il controllo dei salafiti. Per esempio, si può ricordare un rogo di libri che […] fece scalpore in tutto il Paese: i libri furono bruciati perché considerati pericolosi – autori come Dan Brown e Paulo Coelho – oppure perché “facevano propaganda a favore dello Stato islamico creato dagli ebrei”, che è una dichiarazione che, se da un lato suggerisce uno zelo apprezzabile contro l’Isis, dall’altro fa intravedere qualche problema di antisemitismo» (Raineri) • «“Questo caos è figlio di Gheddafi. Del suo regime. D’una certa mentalità in cui ha cresciuto i libici. Io ero molto amico suo. L’ho aiutato a salire al potere nel 1969, gli ho insegnato molte cose militari. Poi mi sono distaccato e non lo volevo più al potere, ma non mi è piaciuto com’è stato eliminato. In quel modo barbaro. Senza un processo, che invece sarebbe stato un esempio da dare al mondo. Ci sono popoli che non hanno un leader e ci sono leader che non hanno un popolo: l’avessimo processato, avrei voluto chiedergli perché aveva rinunciato al popolo”. Lei ce l’ha, un popolo? “In Libia molti mi amano. Ma tengo sempre a mente che un leader dev’essere come un genitore o un buon insegnante: si fa rispettare, senza seminare il terrore”» (Battistini).