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 2023  novembre 08 Mercoledì calendario

Biografia di Marco Bellocchio

Marco Bellocchio, nato a Piacenza il 9 novembre 1939 (84 anni). Regista. Sceneggiatore. Produttore. Tra i numerosi riconoscimenti, un Leone d’argento (La Cina è vicina, 1967), un Orso d’argento (La condanna, 1991), un Leone d’oro alla carriera (2011) e una Palma d’oro onoraria (2021). «Non credo sia giusto attuare una scissione tra vita personale e attività professionale: ho sempre cercato una coerenza tra l’essere un cittadino e l’essere un artista» • «“Sono nato a Piacenza: Bobbio è il paese di mio padre. Papà di mestiere faceva l’avvocato. All’inizio degli anni Cinquanta le famiglie della media borghesia non trascorrevano l’estate al mare, ma in campagna, come in Russia. Restavo lì da giugno fino a metà settembre. […] Consumavamo al fiume tutti i pomeriggi. Era la libertà, lo spazio aperto, lo scorrere della vita senza barriere, ma anche il piacere della solitudine. A Piacenza mi sentivo dentro un manicomio con il portone chiuso a chiave, a Bobbio le chiavi neppure esistevano”. Da che cosa voleva fuggire? “Dall’infelicità della mia famiglia. Invidiavo quelle serene e ordinate nelle quali i figli erano, come si diceva allora, ‘guardati’ dai genitori”» (Dario Cresto-Dina). «“Nove figli: visto che il primogenito era nato con gravi problemi psichici, mio padre volle una famiglia numerosa, per sopperire. Ma la secondogenita, intelligentissima, è sordomuta, e anche un’altra sorella è abbastanza problematica: di fatto, sono state costrette a rimanere in casa. Questo mio fratello ci spaventava, urlava, noi altri ci chiudevamo nelle stanze più lontane per non sentirlo. Sono angosce finite anche nei miei film”. Si vergognava di quel fratello? Fa la faccia di uno che vuol dire di no, ma poi ammette: “Girava per le vie di Piacenza parlando da solo a voce alta, in chiesa cantava in modo particolarmente stonato e quando portavo a casa gli amici avevo paura che si comportasse male. Per questo in prima liceo andai in collegio, al San Francesco di Lodi, dai padri barnabiti. Stavo meglio lì che a casa”» (Paola Zanuttini). «Le sue urla hanno segnato la mia adolescenza. Tornavo dal collegio di Lodi e c’era sempre il pazzo che urlava: ne I pugni in tasca si trasforma nel fratello che il protagonista alla fine uccide». Un altro fratello, il suo gemello Camillo, morì suicida «a 29 anni, per la depressione provocata da un amore senza fortuna. Non ci assomigliavamo per niente lui e io, non avevamo complicità, nelle nostre estati a Bobbio frequentavamo compagnie differenti». «Essendo l’ultimo, ho sempre sofferto l’oppressione, la sottile privazione che capita a chi vive in famiglie così numerose. Ero un po’ infelice. E me ne sono andato presto» (Valeria Pardini). «Se si potesse racchiudere una vita in capitoli, in quella di Bellocchio il primo non riguarderebbe il cinema: “La regia è stata per me la quarta scelta. Un primo capitolo, partendo dall’adolescenza, potrebbe intitolarsi ‘La perdita della fede’, un passaggio fondamentale. Me ne resi conto proprio nel bel mezzo dell’educazione cattolica, mentre frequentavo il collegio dei barnabiti. Andavo a messa tutti i giorni, e a un certo punto cominciai a chiedermi ‘Perché sto qui?’, una domanda che è diventata poi il motore di tante altre cose. Incoraggiato da mio fratello Piergiorgio, mi sono dedicato alla poesia, e intanto dipingevo. Credevo di soddisfare così la voglia di esprimermi”. Non era vero, perché, anche se nei primi anni Sessanta un libro di poesie comunque lo pubblicò, I morti crescono di numero e d’età, “avevo una passione segreta, ed era quella di fare l’attore”. Poeta, pittore, attore: “Nessuna delle tre ha funzionato. Finito il liceo, sono andato a iscrivermi all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, ed è stato in quel periodo che sono intervenuti grossi problemi psichici. Si manifestavano nella perdita della voce, divenni completamente afono”. Costretto a lasciare il teatro, Marco non si arrese. Lasciò ancora una volta l’amata Bobbio, […] stavolta per Roma: “Qui tentai l’esame come attore al Centro sperimentale. […] Superai l’esame. E fu proprio frequentando i corsi come attore che cominciai a scoprire il cinema. […] Lì cominciai a desiderare di ‘fare le immagini’. Mi ripresentai a un altro esame al Centro e fui ammesso al corso di regia. Mi fu parecchio utile l’esperienza della pittura”» (Maria Pia Fusco). «All’inquieto ragazzo di Bobbio però anche Roma non bastava. “Mi sembrava una provincia. Decisi di andare a Londra e ci rimasi due anni. […] Erano gli anni dei Beatles, cominciava la Swinging London, ma io non mi scatenai. Andavo a teatro, all’Albert Hall a sentire Pollini. Ero prudente. […] Londra però è stata essenziale per la progettazione de I pugni in tasca, perché lì ritrovai Enzo Doria, uno dei paparazzi de La dolce vita, uomo affascinante, amato dalle donne: era stufo di fare l’attore e voleva diventare produttore. E io avevo il diploma del Centro sperimentale, ma sentivo di dover dimostrare che ero davvero un regista”. Non fu facile trovare i finanziamenti, e dopo vari tentativi falliti Bellocchio chiese di nuovo aiuto al fratello Piergiorgio. “Nel mio essere una persona tutt’altro che pratica, dimostrai una notevole praticità. Pensai a una storia personale, la sola che avrei saputo raccontare, mi arrangiai a girare in casa di Piergiorgio, ma attento a non mandare in rovina la mia povera famiglia, che povera non era, ma tutti vivevano di quel patrimonio, e i costi furono tenuti bassi. Avevo avuto la fortuna di incontrare al Centro un ragazzo biondo, Lou Castel, perfetto per il ruolo: non so come sarebbe andata se avessi scelto Gianni Morandi, che pure a un certo punto era stato preso in considerazione”. Così, dopo “La perdita della fede”, “Il fallimento dell’attore”, “La scoperta delle immagini”, arriva nel ’65, a ventisei anni, il quarto capitolo, “Il clamoroso esordio alla regia” con I pugni in tasca» (Fusco). «In quasi tutti i film di Bellocchio c’è un ribelle, e c’è un genitore da assassinare. Nel primo […] il protagonista annega il fratello e getta nel burrone la madre: “il mite vendicatore dell’Appennino”, come lo definì Alberto Moravia» (Aldo Cazzullo). «Fu un caso internazionale, “accolto dalla sinistra con stupore ed entusiasmo: su Rinascita ne scrisse Italo Calvino. Ebbe successo anche in Italia”» (Barbara Palombelli). Due anni dopo, il secondo lungometraggio: La Cina è vicina, «“uno sberleffo verso quella politica velleitaria e trasformista che cominciava a esser messa in pratica allora e tuttora continua”. Nel ’67 dette scandalo e vinse il Premio della giuria a Venezia. […] “All’epoca del film avevo 28 anni. Guardavo con sospetto i partiti ufficiali e con ironia quei gruppuscoli goliardico-maoisti. Per nulla antesignani del Movimento studentesco del ’68, ma piuttosto ridicoli con la loro fede in una Cina immaginaria. […] Salvo che due anni dopo mi ritrovai anch’io nelle file dei marxisti-leninisti”» (Giuseppina Manin). «Ho fatto il Sessantotto da vecchietto: ripensandoci oggi mi appare tutto un po’ ridicolo. […] Aderii, per qualche mese, all’Unione dei marxisti-leninisti di Aldo Brandirali, una pedestre imitazione del maoismo, con coreografie e slogan che inneggiavano al libretto rosso e alla rivoluzione. Ma non eravamo né bombaroli né terroristi». «“Non mi sopportavo più come rappresentante della classe cui appartengo, la classe borghese. Oggi fa ridere, allora era una cosa seria la ricerca di una cultura diversa, opposta. […] In quel periodo la mia parte artistica fu praticamente annullata, feci giusto qualche film di propaganda, Il popolo calabrese ha rialzato la testa, Viva il 1° maggio rosso e proletario. Ma il contagio non durò”. Il film della crisi arriva nel 1972, Nel nome del padre, con Lou Castel e Laura Betti, il racconto della ribellione alle regole in un collegio cattolico. “Era un film in cui rileggevo un po’ marxisticamente pagine della mia vita. Ma il ‘fuori’, il rapporto con la realtà sociale esterna, non mi bastava. Continuavo ad avere bisogno di capire chi ero io. E dunque la psicanalisi. Per qualche anno un’analisi classica, poi il mio grande amico Piero Natoli mi portò alla scoperta dell’analisi collettiva e a Massimo Fagioli”. Era il 1978: l’anno prima Bellocchio aveva fatto Il gabbiano da Čechov, uno degli autori che con Pirandello più lo hanno attratto. “Con Fagioli il rapporto è stato graduale fino a diventare un forte legame personale, e il cinema, con la sua partecipazione, mi sembrava prendesse la direzione giusta. Il diavolo in corpo è un film bello ma imperfetto, perché ci prese alla sprovvista: il rapporto tra Massimo e me non era ancora collaudato. La condanna era già più orientato ideologicamente. Finché arrivammo a Il sogno della farfalla, un film estremo, delicatamente estremo”. Fu il film che segnò la fine del legame con Fagioli e, con Il principe di Homburg, un ritorno al cinema classico. “Non mi vergognavo più della mia origine e dei miei problemi personali. Senza rinnegare né il percorso politico né quello psicanalitico sentivo di dover seguire liberamente le mie idee, quello che mi veniva in mente: sbagliando o non sbagliando, non aveva più importanza”» (Fusco). «Con […] L’ora di religione (2002), Buongiorno, notte (2003) e II regista di matrimoni (2006) Bellocchio torna a parlare dei disturbi di relazione dell’individuo in rapporto alla famiglia, alla religione, e considera con autentico spirito laico il problema della laicizzazione del sacro, dei rapporti tra pubblico e privato nella gestione dei problemi della religione. In Il regista di matrimoni la ricerca del sé, della realizzazione delle proprie potenzialità passa anche attraverso una riflessione sul cinema e sul suo mutamento in atto tra le più originali degli ultimi anni. In Buongiorno, notte, invece, cerca di ricostruire dall’interno, servendosi delle memorie della brigatista Anna Laura Braghetti, i comportamenti e la logica dei brigatisti che hanno rapito e ucciso Aldo Moro, […] immaginando possibilità diverse rispetto a quelle decise dalla storia. La sua condanna nei confronti dei brigatisti è ferma e inequivoca, ma la scelta di assumere un punto di vista troppo ravvicinato ha suscitato forti reazioni negative sia sul piano politico che della critica cinematografica» (Gian Piero Brunetta). Tra i film più importanti degli ultimi anni, Vincere (2009), sulla tragica vicenda di Ida Dalser, la donna da cui Mussolini ebbe un figlio e che poi rinnegò relegando entrambi in manicomio fino alla morte, Bella addormentata (2012), ispirato al caso di Eluana Englaro, Fai bei sogni (2016), basato sull’omonimo romanzo di Massimo Gramellini, e Il traditore (2019), incentrato sul personaggio di Tommaso Buscetta, interpretato da Pierfrancesco Favino. Grande successo per la serie in sei puntate Esterno notte, trasmessa da Rai 1 nel novembre 2022, ancora sul sequestro e sull’assassinio di Aldo Moro. «Bellocchio parla di “una sorta di controcampo” di Buongiorno, notte, il film del 2003 […] sui giorni della prigionia. “Cambia il punto di vista: stavolta siamo all’esterno della tragedia, sicché prendono rilievo personaggi come Cossiga, Paolo VI, la moglie di Moro, i terroristi”. Aggiunge: “Una serie tv risponde a regole diverse da quelle di un film. Ho cercato di seguire i fatti. Ma la realtà si integra con la fantasia. La formula è la stessa di Buongiorno, notte. Succedono cose vere e avvengono cose inventate. Mi sono preso quelle libertà che per me sono necessarie”» (Paolo Baldini). Da ultimo è tornato prima al Festival di Cannes e poi nelle sale cinematografiche con Rapito (2023), incentrato sulla vera storia di Edgardo Mortara, battezzato da una fantesca di nascosto dalla famiglia ebrea e quindi, a norma di diritto canonico, prelevato a sei anni da papa Pio IX per garantirgli un’educazione cattolica. «“Fin dall’inizio mi ha mosso l’amore per il dramma di questo bambino. […] Il film sta suscitando un certo tipo di discussioni e polemiche, ma il mio primo interesse non era fare un’opera contro Pio IX. Questi due elementi si sono integrati”. […] Ha scritto una lettera a papa Francesco invitandolo a vederlo: risposte? “Finora nessuna. Naturalmente ha cose ben più importanti di cui occuparsi”. […] Sta già pensando al nuovo film? “L’idea è lavorare su Enzo Tortora. Non so se un film, una serie o altro”» (Maurizio Caverzan) • Dal 1997 ogni estate (tranne che nel 2020, causa pandemia) Bellocchio organizza a Bobbio un laboratorio di cinema per giovani, “Fare cinema”, e il Bobbio Film Festival, a esso collegato. Nell’ambito di questa esperienza è scaturita una serie di pellicole (Sorelle, 2006; Sorelle Mai, 2010; Sangue del mio sangue, 2015) ambientate a Bobbio e per lo più ispirate a vicende familiari, nella cui realizzazione è stata ampiamente coinvolta la famiglia stessa del regista • Tema ricorrente della produzione di Bellocchio il suicidio del gemello Camillo, presente ne Gli occhi, la bocca (1982) e in Sangue del mio sangue (2015) e al centro di Marx può aspettare (2021), con cui il regista «apre le porte di casa Bellocchio a ricordi, sentimenti, rimorsi della famiglia – fratelli, figli, nipoti, zii – sulle tracce del mistero della morte di Camillo, il gemello suicida a 29 anni. […] Cosa ha scoperto? “Di non aver capito. […] Lo dice mio fratello Alberto, che mio fratello soffriva, ci chiedeva aiuto, e noi gli davamo risposte insufficienti. C’è la sua lettera in cui mi pregava di aiutarlo a entrare nel cinema. È venuto fuori per caso questo titolo, che trovo giusto: quando dissi a Camillo una serie di cavolate, perché in quel periodo, era il ’68, militavo tra i maoisti italiani, lui mi rispose sorridendo ‘Mi racconti della salvezza attraverso la politica, ma per me Marx può aspettare’”» (Arianna Finos) • Altro tema caro al regista quello della follia, affrontato soprattutto nel documentario girato nel 1975 insieme a Silvano Agosti, Matti da slegare (originariamente intitolato Nessuno o tutti), «epocale documento sulla malattia mentale» (Zanuttini) • Appassionato di musica lirica, ha diretto a teatro Rigoletto, Pagliacci e Andrea Chénier. «Mi attengo rigorosamente alle esigenze della partitura e del canto: ciò che più conta. Sostengo che il vero regista sia il direttore d’orchestra. […] Se al cinema spetta a me creare, in teatro comanda l’opera, che non va provocata. Non concepisco dissacrazioni e scandali» (a Leonetta Bentivoglio) • Due figli: Pier Giorgio, dalla ex moglie, l’attrice Gisella Burinato, ed Elena, dalla sua attuale compagna, la montatrice Francesca Calvelli • «Da ragazzo, il mio idolo era Lenin. Ero un rivoluzionario, uno che si batteva contro il revisionismo del Pci, ma personalmente non ho mai piegato un capello a nessuno. L’ironia e la prudenza, innate, mi hanno salvato in più di un’occasione. Ho sempre partecipato, con il mio mestiere, al grande cambiamento nazionale che ha preso l’avvio, all’inizio degli anni Sessanta, proprio da Piacenza, proprio da casa mia. Un cammino lungo, che ancora continua. Era il 1962 quando mio fratello maggiore Piergiorgio, insieme a Grazia Cherchi, Cesare Cases, Goffredo Fofi, Franco Fortini e tanti altri, fondò i Quaderni Piacentini, rivista marxista su cui si sono, ci siamo formati in tantissimi». «Resto un anarchico, sempre più moderato a dire la verità. Non mi vedrete mai a lanciare pietre con i No Tav, ma il potere continua a darmi fastidio. Papa Francesco è più a sinistra della sinistra, ma non fatemi passare per un convertito. Anche se non mi trovo d’accordo con lui su molte questioni, soprattutto in materia di famiglia, parlar male della Chiesa oggi non mi viene naturale» (a Gloria Satta) • «Che cos’è per lei l’ateismo? “Ha in sé qualcosa di militante contro la religione che non è in me. Sono non credente, ma non ho bisogno di affermarlo. […] A volte, quando vedo rappresentata la fede nell’arte e nel grande cinema, come quello di Dreyer, succede che mi commuovo”» (Caverzan) • «Non mi piace esser chiamato maestro. Sono lo stesso di quando avevo 25 anni: al massimo s’è modificato lo sguardo, non lo stile». «Io sto molto in casa. La casa è un osservatorio fondamentale: è fra le pareti di casa che la follia familiare esplode e si consuma. Forse I pugni in tasca produce ancora emozioni perché non si alimenta del contesto politico-sociale: racconta un interno familiare dove, nonostante la mia famiglia non fosse così, c’è parecchio di personale» (ad Alessandra Levantesi Kezich). «Racconto le storie scostandomi da esse. Se ne sto un po’ lontano mi sento più libero». «Ho cercato sempre di esser fedele alle mie idee e alle mie immagini, e questo pur cambiando. Io rivendico il mio cambiamento» • «Non si smette mai di aspettarsi da lui un capolavoro» (Natalia Aspesi) • «Nasco come pittore, Grazia Cherchi mi diceva “Lascia perdere i film: sei pittore e poeta”. Si sbagliava: in realtà il cinema è davvero la mia vita. Ma non, come dice qualcuno, per non diventare pazzo. È che ti mette in gioco continuamente con decine di persone, ti obbliga a confrontarti e a lottare». «Non rinnego nulla. Ho fatto anche degli sbagli. Ma tutto alla fine mi appartiene, sta dentro di me. Sento la colpa solo delle azioni che ho compiuto senza coraggio. Delle scelte coraggiose non mi sono mai pentito». «Unico rimpianto: “Non ho voluto dirigere, negli anni d’oro del mio lavoro, gli attori famosi per colpa della mia provinciale diffidenza verso i grandi nomi. Ho sbagliato, ma l’ho capito troppo tardi”» (Satta) • «Alla mia età, […] un regista ha due opzioni: o si rimbambisce o continua a divertirsi. Io ho scelto la seconda». «Il piano è semplice. Il corpo è importante, ma non fondamentale. Quindi, fino a quando la testa sarà a posto, andrò avanti. Poi mi farò da parte, perché non voglio somigliare ai tanti che continuano, magari per comprensibili ragioni alimentari, a girare opere di singolare bruttezza. La pensione, mille euro, non è un granché e mette i brividi. Toccherà affidarsi alla salute». «Ho mille progetti e vorrei realizzarli tutti».