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 2023  novembre 23 Giovedì calendario

Biografia di Pino Donaggio (Giuseppe Donaggio)

Pino Donaggio (Giuseppe Donaggio), nato a Burano (Venezia) il 24 novembre 1941 (82 anni). Cantautore. Compositore. Oltre 80 milioni di copie vendute nel mondo con Io che non vivo (senza te) (considerando anche le versioni straniere). «Avevo un sogno negli anni di conservatorio: diventare un grande violinista, un solista richiesto dai teatri di tutto il mondo. Il destino ha deciso diversamente» (a Ranieri Polese) • «Io, a Burano, ci sono solo nato. All’epoca si nasceva in casa della madre e i miei nonni erano di Burano. Lui faceva il pescatore, aveva una decina di barche. Ricordo quando mi portava a pescare passarini con le mani. Che felicità» (a Vittorio Pierobon). «Sono cresciuto con la musica, perché mio padre a Venezia aveva un’orchestrina. Pensi che per un po’ il cantante fu un ragazzo che faceva ancora il portiere all’Hotel Danieli, Sergio Endrigo. Persona magnifica, che allora cantava da crooner alla Sinatra. In più studiavo violino al conservatorio, a Venezia ovviamente Vivaldi. Ero primo violino dei Solisti Veneti, poi Claudio Abbado mi fece un provino e mi prese nell’orchestra dei Solisti di Milano: giravamo l’Europa. Volevo fare il musicista classico» (a Luigi Bolognini). «Intanto ascoltavo le canzoni che mio padre proponeva ai matrimoni e alle feste con la sua orchestrina. […] Provai anch’io a cantare e la gente applaudiva, ma papà mi diceva “Lo fanno per me: non metterti in testa idee strane e continua col violino”» (ad Antonio Lodetti). «Ho incominciato a cantare a qualche festa, come tanti. I miei pezzi forti erano Diana di Paul Anka e Bernardine di Pat Boone. Le ragazze insistevano, e cantando… si aveva più successo che suonando il violino. Mio padre era arrabbiatissimo» (a Giorgio Destefanis). «A un concorso estivo ad Auronzo di Cadore mi ritrovai a cantare Diana di Paul Anka. Ero bello, magro, coi capelli lunghi, ballavo benissimo il rock: fu un trionfo». «Se ho avuto un maestro? No, soltanto l’esperienza da ragazzino nella corale della Fenice in opere come Carmen e Mefistofele. Lì ho capito d’essere intonato» (a Gian Luigi Paracchini). «Ero la pecora nera del conservatorio, perché componevo già canzoni e davo gli esami per evitare di partire per il servizio militare. Ma ero bravo e quindi non potevano dirmi niente. […] Io sono cresciuto ascoltando la musica leggera: ero l’unico del conservatorio a farlo. Allora non è come adesso, che si studia anche jazz e altri generi musicali. Ero guardato con sospetto, ma un professore mi disse che i miei colleghi avrebbero trascorso la vita a suonare la musica composta da altri: io invece avrei suonato sempre la mia». «A Milano, nel tempo libero, buttava giù testi e melodie, e un giorno prese il coraggio a quattro mani e li portò all’editore Curci, dove qualcuno disse: “Abbiamo trovato il nuovo Paul Anka”. E Donaggio finì per caso nel mondo della musica leggera che conta. “Scrissi Come sinfonia, che avrebbe dovuto essere assegnata a Mina per Sanremo, ma lei aveva già Le mille bolle blu e un altro brano, così insistette per far cantare me, che ero l’autore. Chissà, se Mina avesse interpretato Come sinfonia non sarei diventato cantante”» (Lodetti). «“Quindi toccò a me partecipare, […] a 19 anni, assieme a Teddy Reno, arrivando sesto. E poi, subito dopo il Festival, Mina la cantò comunque: un’interpretazione ovviamente splendida, che contribuì al mio successo”. […] Come presero i musicisti classici quel Sanremo? “Avevo detto al mio maestro di violino che sarei stato via una settimana. Tornai dopo un mese, famosissimo. Non mi parlò per vent’anni, e non dico per esagerazione. Da allora mi misi a scrivere canzoni alternando cose semplici, come Il cane di stoffa, Villaggio sul fiume, Pera matura, twist come Giovane giovane, e altre decisamente più strutturate, quasi di impronta sinfonica. Penso a Una casa in cima al mondo, che nel 1966 Mina stava per cantare al Festival. Sarebbe stato un clamoroso ritorno perché aveva giurato di non farsi più vedere lì. Poi non se ne fece nulla e mi ritrovai con Claudio Villa, anche se pure in questo caso Mina la cantò in tv e ne fece un capolavoro. E poi, certo, Io che non vivo. […] La scrissi e mi pareva che avesse una eccellente linea melodica, strumentale: bella. La portai a Sanremo, dove quell’anno bisognava duettare con artisti stranieri che cantavano in italiano. Io ero con una inglese, Jody Miller, che ne fece una versione troppo lirica. Non andò troppo bene, anzi. Ma chi era andata anche peggio – in gara con Fabrizio Ferretti – era Dusty Springfield, subito eliminata. Si innamorò della canzone, comprò il disco e a Londra fece scrivere un testo molto diverso. Dopo qualche tempo mi chiamò la casa discografica e mi mostrò una copia di Billboard che diceva che You Don’t Have to Say You Love Me aveva venduto un milione di copie. La sorpresa fu scoprire che era la mia canzone. E restai davvero senza parole quando la interpretò Elvis Presley: io ci ero cresciuto, giocavo a imitarlo, e ora lui interpretava un mio brano. Uno di quelli che strappavano più applausi nei concerti”. […] L’ha mai conosciuto? “Macché. Una volta andarono a un suo concerto al Madison Square Garden di New York Bobby Solo e Little Tony, ma me lo dissero solo dopo. Mi sarei unito a loro, eccome, e col fatto di essere l’autore di quella canzone sarei certo riuscito a incontrarlo. Quello è un rimpianto. Però, Dusty, sì, che l’ho conosciuta, negli anni Ottanta, proprio a New York. Mi presentai e mi saltò letteralmente in braccio: ‘Hai scritto la canzone della mia vita’, mi disse. ‘E anche della mia’, le risposi. Sono orgoglioso: è uno dei grandi classici italiani nel mondo con Nel blu dipinto di blu e Quando quando quando”» (Bolognini). «Tra le canzoni presentate a Sanremo, ce n’è qualcuna che secondo lei meritava di più? “Sì, Motivo d’amore, del 1964. Quell’anno ero in una buona accoppiata, con Frankie Avalon. Il testo era mio. C’è un verso della canzone che mi piaceva molto, pensavo facesse effetto: ‘Io ti ringrazio perché te ne vai’. Invece la canzone passò quasi inosservata”. All’inizio degli anni Settanta c’è un’altra svolta. […] “Era il 1973, a Venezia. Stavano girando un film, Don’t Look Now (in Italia diventò A Venezia… un dicembre rosso shocking), con Donald Sutherland e Julie Christie. Il regista era l’inglese Nicolas Roeg, che ancora non aveva trovato le musiche. Bene, una notte, mentre tornavo da una serata, su un vaporetto mi nota uno dei produttori italiani del film. Mi riconosce, e pensa che l’avermi incontrato su quel vaporetto sia un segno del destino. Così mi cerca, parliamo e lui mi chiede se voglio scrivere le musiche per quel film. È un lavoro per me sconosciuto, però decido di provare. Il risultato piace, e la mia prima colonna sonora vincerà quell’anno un premio”» (Polese). «Con le note di quel film di culto comincia la mia vita di colonnista sonoro». «Fino a Brian De Palma. “Successe che all’improvviso morì Bernard Herrmann, l’uomo che scriveva le musiche dei film di Hitchcock, e che doveva fare Carrie – Lo sguardo di Satana. Qualcuno fece ascoltare a Brian le musiche di A Venezia…, e lui capì che suonavo gli archi come Herrmann. D’altronde era un violinista anche lui: stessa formazione. Sa, i pianisti quando compongono cercano l’accordo, i violinisti cercano i temi in primo piano. La differenza tra me e lui è che lui partiva subito con la suspense, io ho sempre scritto melodie morbide col colpo di scena improvviso”. Da allora ha scritto per molti film di De Palma. “Molti, non tutti. Solo i thriller. Brian mi vede adatto solo per quelli. Per gli altri neppure mi chiede di fargli ascoltare qualcosa. Fa altre scelte, forse ha paura di dovermi dire no. Ma va bene così: abbiamo un ottimo rapporto, anche perché ho scritto, senza false modestie, alcuni pezzi memorabili. Il migliore penso quello di Vestito per uccidere: so che lo studiano nelle scuole di musica per il rapporto tra musica e immagini. Tra l’altro, quella colonna sonora vendette mezzo milione di dischi, uno sproposito per questo genere. E Doppia personalità, il mio lavoro più alla Herrmann, ma anche la partitura più atonale e studiata che abbia mai fatto. Ho anche avuto fortuna: i film di De Palma hanno sempre pochi dialoghi, quindi c’è più spazio per me. E poi ci capiamo al volo, senza parlarci: lui manda il montato e lascia massima libertà di composizione, anzi non ascolta nulla fino a che il film non è in sala”. […] Però non pensa che aver lavorato solo per i thriller di un regista così abbia connotato anche lei come musicista di genere? “Temo di sì, e questo mi dà un po’ fastidio. […] Ma io ho scritto per mille tipi di film diversi”» (Bolognini). «Donaggio incrocia pure decine di registi italiani, come Dario Argento e Liliana Cavani, Troisi-Benigni (Non ci resta che piangere) e Giuseppe Ferrara, Michele Placido e Pupi Avati, Sergio Rubini e Carlo Vanzina, Giovanni Veronesi e Tinto Brass. Per non parlare delle musiche nelle serie tv, Provaci ancora prof!, Don Matteo, Sospetti, Rossella e Un passo dal cielo”» (Paracchini). «Ma quante colonne sonore ha realizzato? “Circa 250, tra cinema e fiction”» (Pierobon). «E la canzone? “L’ho abbandonata per rispetto. Ho avuto successo, ma il revival mi mette tristezza. Una sera vidi Gianni Meccia, Nico Fidenco e Jimmy Fontana rifare i pezzi del passato: se penso che un tempo lottavano per i primi posti a Sanremo…”» (Lodetti) • Tra i vari riconoscimenti ricevuti, il Premio alla carriera del Festival di Sanremo (2015) e il Premio Tenco alla carriera (2019). «Quando diventi vecchio, cominciano a premiarti» • Un’autobiografia scritta con Anton Giulio Mancino, Come sinfonia (Baldini+Castoldi, 2021) • Sposato dal 1966 con Rita Cucco (tra i testimoni di nozze Little Tony), due figli (Cristiano ed Elisabetta). «Decisamente un’eccezione nel mondo dello spettacolo. La definizione di antidivo le va bene? “Perfetto, è esattamente quello che sono. Non ho mai cercato di essere sopra le righe. La famiglia per me è importantissima e mia moglie ha avuto molta parte nel mio successo. Io che non vivo è dedicata a lei”» (Pierobon) • «Donaggio, le sue canzoni e le sue musiche hanno girato e girano il mondo, ma lei non si è mai allontanato da Venezia. “Sono legatissimo a questa città. Io adoro l’acqua. Da bambino mi piaceva stare sotto la pioggia. Qui trovo l’ispirazione per le mie musiche: quasi tutte sono nate a Venezia. Io sono dentro la città, abito lungo il canale di Cannaregio, uno dei posti più popolari di Venezia. E mi sento a mio agio. […] Venezia favorisce l’ispirazione. Dopo il grande successo di Come sinfonia avevo pensato di trasferirmi, ma poi mi sono detto: ormai mi conoscono, se mi vogliono sono qui”» (Pierobon) • Amante della pittura e collezionista di opere d’arte. «Prima di comporre avevo fatto un anno di Accademia di belle arti, ero bravo a disegnare» (a Mirko Schipilliti). «Quando mi manca l’ispirazione, vado per musei: a Venezia c’è arte dappertutto, ed è per questo che vivo ancora qua» (a Ilaria Pellanda) • «Ma sa quante volte mi hanno offerto droga? Mi dicevano che si componeva meglio. Non ne ho mai voluto sapere. Non fumo nemmeno. Al massimo un bicer de vin» • «Più facile lavorare per Hollywood o per le produzioni Made in Italy? “Non è questione di persone, ma di budget. Là ti danno carta bianca e un certo tempo, qui sono sempre di fretta, ti chiedono di risparmiare sui fiati e tagliare qualche violino: insomma, sarebbero contenti se risolvessi tutto con il sintetizzatore, strumento eccezionale, per carità, ma l’orchestra è un’altra cosa. Detto questo, non cambierei Venezia con niente. Certo negli Stati Uniti ho passato molto tempo, ma da quando anni fa ho avuto un atterraggio shocking con un’ala dell’aereo in fiamme mi muovo poco. È stato il momento peggiore della mia vita, anche perché ero stressato, logoro: ci ho messo un po’, a ricaricare le pile”» (Paracchini) • «Dice che non ama lavorare con le registe donne “perché, non so come mai, cambiano idea ogni giorno e diventa tutto un disastro”. Pino Donaggio sorride, è un veneziano pieno di humor, e pazienza per il politicamente corretto» (Fabrizio Accatino) • «Come nasce il suo stile? “Scrivo melodie sempre ben evidenti, fatto tipicamente italiano, derivato dal melodramma: questa italianità mi rende riconoscibile. […] E poi la mia seconda passione, la pittura, mi ha insegnato più dei compositori per uscire dal mondo della canzone. […] Nel passare al cinema ragionai partendo dalla pittura, dai quadri di Van Gogh”» (Schipilliti). «Io parto sempre dai ricordi: o parto dal classico, o dalle canzoni, o dal pop, parto sempre da qualcosa che ho studiato e praticato. Alla fine quello che incameriamo da ragazzi viene sempre fuori» (ad Andrea Natale). «Sono le immagini a ispirarmi. Neppure sapevo di avere una memoria visiva accentuata, ma è proprio questo il segreto: assecondare le immagini e trovare una musica che vi si adatti. Non il contrario. Non porto la mia musica nel film: mi metto a servizio di ogni regista e la compongo secondo la sua idea di cinema. […] Poi c’è quello, come Fulci, che si affida completamente e ti dice “fai tu”» (a Beatrice Fiorentino) • «Nel cinema horror mai anticipare con la musica quello che accadrà dopo» • «Ci dica […] a chi darebbe una sua canzone. “Ci sono tre cantanti che hanno cambiato la musica in Italia: Modugno, Battisti e Ferro. La darei all’unico ancora vivo. Ferro ha rivoluzionato il ritmo della canzonetta, da otto battute e intervallo alla struttura libera. Tra le donne, stimo parecchio Alessandra Amoroso. Mi piace tenermi aggiornato sulla musica, ascoltare. Ma rigorosamente su dischi: li compro ancora. Niente digitale. Alla mia età io sono uno analogico e concreto, direi tattile”» (Bolognini) • «Ma Pino Donaggio nei prossimi ottant’anni cosa farà? “I primi ottanta sono andati molto bene. Intendo continuare a lavorare e comporre. Ho ancora molti film che mi aspettano”» (Pierobon).