Corriere della Sera, 2 dicembre 2023
Intervista a Roberto Baggio
Roberto Baggio, è difficile essere un numero dieci?
«Sì, lo è sempre stato. Era già complicato ai miei tempi. Eravamo sempre discussi. Zola, ad esempio, per giocare è andato a Londra. Ora ce ne sono di meno, sono un genere in via di estinzione. Bisognerebbe stare dentro il mondo del calcio di oggi per capire le ragioni di questa eclissi della fantasia. Io non ci sono. So solo che per me quel numero corrispondeva al desiderio di fare le giocate, di inventare, di sentirsi liberi».
Tu hai sofferto di questo processo?
«Quando giocavo in nazionale sono uscito dal mondiale e non mi hanno più convocato. Sembrava che il calcio non avesse più bisogno di fantasia, che considerasse l’estro un reato. Tutto era finito in mano alla tattica. Le partite non le vincevano più i giocatori, le vincevano gli allenatori».
Chi sono stati i tuoi modelli?
«Sentimentalmente Paolo Rossi. Lui giocava a Vicenza, la mia città. E io andavo in bicicletta con mio padre a vederlo. Ed era sempre uno spettacolo. Dal punto di vista del gioco mi innamorai di Zico. Lo sognavo di notte».
Quante volte gli allenatori ti hanno gridato «Torna!»?
«Qualche volta è successo, ma io facevo finta di non avere sentito. Lo facevo, ma per aiutare i miei compagni, non per astrusi dettati tattici».
La tua vita calcistica, quindi la tua vita da ragazzo, è stata dominata non solo dal tuo talento ma dal dolore che hai conosciuto…
«Sono stati tanti. Quello fisico, conosciuto all’inizio della mia carriera, poteva davvero costarmi caro. La sofferenza era terribile ma ho imparato a conviverci, solo in quei momenti rimetti a posto le gerarchie della vita e ne capisci il senso profondo».
Ti ricordi quel giorno? Era il 5 maggio, data inquietante, del 1985.
«Fu un incidente stupido, avevo appena fatto gol, mi sono buttato in scivolata per un contrasto, ho toccato la palla ma quando mi sono rialzato era come se mi fosse scoppiato un ginocchio. Un dolore impensabile. Ci sono voluti due anni per tornare a giocare. Ma mi ha segnato per la vita. È stato un compagno fedele, non mi ha mai lasciato».
Facesti in Francia un’operazione chirurgica molto difficile.
«Quando mi sono svegliato dall’anestesia e ho visto come era ridotta la gamba mi sono sentito svenire. Mi hanno tolto il muscolo vasto mediale, quello che sostiene ginocchio e gamba, ed era come se mi avessero tagliato i muscoli e ridotto la gamba. Il mio braccio era più grande della mia gamba. Avevano fatto un buco nella tibia, con il trapano, allora unico modo in cui si poteva attraversare il muscolo. Per fissarlo nella parte esterna mi misero 220 punti di sutura con le graffette di ferro. Io non potevo prendere gli antinfiammatori perché ero allergico. Se dormivo non sentivo dolore, ma da sveglio era una tortura, avevo dentro qualcosa di incandescente. Piangevo tutto il giorno, non mangiavo. Ho perso dodici chili. Quando mi svegliai e vidi la mia gamba in quello stato dissi a mia madre che, se mi voleva bene, doveva ammazzarmi».
Ti ha perseguitato a lungo?
«Ho faticato tanto a rimettermi in piedi e a trovare la forza per ripartire. Quando stai male ti può picchiare anche un bambino. Se ti senti meglio tutto torna ad essere possibile, anche giocare al calcio con quella gamba maciullata. La passione mi ha fatto soffrire per soddisfare il mio sogno di bambino».
Quante volte, poi, hai giocato senza sentire dolore?
«Poche, davvero poche. Ho avuto sei operazioni al ginocchio nella mia carriera, non mi sono fatto mancare nulla. A Brescia la mattina mi svegliavo chiedendomi quale dei due mi avrebbe fatto meno male quel giorno. È stata dura, davvero. Ma ne è valsa la pena, eccome. E forse nel mio modo di giocare c’era il segno di quella fatica. E anche il fatto che oggi sia così sereno, a posto con la mia coscienza e il mio passato, felice di quello che provo, forse ha le sue radici nella sofferenza e nella lotta per vincerla».
Andavo con papà a vedere Paolo Rossi, era uno spettacolo Poi mi innamorai di Zico,
lo sognavo di notte
Quante botte hai preso, con il modo che avevi di saltare facilmente l’avversario?
«Noi attaccanti o giocatori di fantasia non eravamo protetti. Ora, se ti prendono per la maglia il difensore è ammonito. Per noi l’entrata da dietro era punibile a discrezione dell’arbitro. Una follia. Guarda la punizione. Oggi la barriera è a nove metri e quindici, persino con la schiuma per terra. Quando battevamo noi stava a sei metri, poi venivano avanti e saltavano pure. È cambiato, giustamente».
Qual è la partita che vorresti rigiocare?
«La finale dei mondiali del 1994 a Pasadena, Italia-Brasile. Non la posso dimenticare. Quella sì vorrei rigiocarla. Siamo arrivati un po’ cotti, avevamo fatto i supplementari con la Nigeria e mezz’ora in più, a quelle temperature, ti stronca. Se fossimo stati più lucidi forse sarebbe stata un’altra partita».
Cosa hai fatto dopo aver sbagliato quel maledetto rigore?
«Cercavo un badile, mi volevo sotterrare, cazzo. Mamma mia, mamma mia. Non si possono cancellare cose così. Quella partita, proprio Italia-Brasile, l’avevo sognata e immaginata tante volte quando ero bambino. Avevo tre anni ma la sconfitta del 1970 non riuscivo a dimenticarla. Volevo vendicare Riva e gli altri. Era il mio sogno, davvero. E quando è finita così mi è crollato il mondo addosso».
Sempre ai mondiali, ma a quelli del ’90 e del ’98 tu facesti due tiri meravigliosi contro Argentina e Francia che, se non fossero andati fuori di poco, avrebbero cambiato la storia azzurra. Quelli sono io a non dimenticarli...
«Non sono stato fortunato. Ho fatto tre mondiali in cui sono uscito sempre per i calci di rigore. Il tiro con la Francia, se fosse entrato, ci avrebbe portato in semifinale con la Croazia, allora c’era ancora il golden goal. Fu un’azione bellissima, un lancio di Albertini, ma io sbagliai a colpire al volo, volevo anticipare Barthez che mi stava venendo addosso ma lui ha fatto un passo in avanti e poi si è fermato. Se avessi aspettato che rimbalzasse, poi potevo metterla dove volevo».
Cos’è il gol per te? E ne ricordi uno con particolare piacere?
«Quello con la Nigeria. È stato molto importante. Ma, credimi, a me piace segnare. Ma mi piace ancora di più far segnare, condividere con altri la gioia di un lavoro comune».
Come hai vissuto il fatto che per due volte non abbiamo giocato ai mondiali?
«Una sensazione strana, alla quale non siamo abituati. Però a me sembra assurdo che una nazionale che ha vinto gli europei non sia ai mondiali di diritto. Avevamo vinto a Wembley, mica poco. Ora spero. Noi italiani siamo fatti così. Se ci attaccano, se ci mettono in discussione, diamo il meglio. Così fu nel 1982, nel 2006 e anche nel 1994. Abbiamo un orgoglio invidiabile. Non solo nel calcio, in tutti gli sport».
Quante delle tue magliette hai tenuto? E se dovessi sceglierne una per andare a dormire?
«Molte, ma sono stato anche un pirla, ho dato via un sacco di roba nei cambi di maglia. Pensa che sono andato a cena con Boninsegna, gli ho chiesto una delle sue maglie. Lui ne ha tenute molto poche. Però mi ha regalato la sua, roba da brividi, e io gli ho dato una mia del mondiale. Ecco, la maglia azzurra è quella che preferisco su tutte. Quella del ’70 e tutte le altre, di sempre».
I primi ricordi legati al calcio?
«Potessi, pagherei per tornare a giocare contro il muro della mia casa da bambino con il portone di ferro di mio padre con i vetri. Ogni tanto li spaccavo e dovevo essere più veloce io a prendere il pallone che lui a prendere me».
Quale era il lavoro di tuo padre?
Mi misero 220 punti di sutura. Piangevo sempre, a mia madre dissi che se mi voleva bene dove-va ammaz-zarmi
«Lui realizzava serramenta in alluminio. Era un genio, sapeva fare tutto. Era nato per lavorare, aveva una passione infinita. Erano gli uomini di una volta. Come tutti quelli della sua generazione, che hanno ritirato su il Paese dopo la guerra. Lo hanno fatto con il lavoro, non con i cellulari».
La guerra.
«A cosa porta la guerra? Se sapessero la legge di causa ed effetto, che tutto, in questa vita o nella prossima, torna, qualche riflessione la farebbero. Ci sono troppi interessi e troppo io, in giro».
Perché tu, Del Piero, Totti, Maldini, non siete attivi nel mondo del calcio? Non è strano?
«Mah, io sono sempre stato in giro, sempre via, viaggi, ritiri, partite. Poi ti rendi conto che la vita ti sfugge di mano, che il tempo vola. Arrivi a una certa età e cominci a fare i conti con il tempo. Io, non voglio parlare per altri, voglio vivere questi anni in modo semplice, facendo cose semplici, godendo le mie passioni con la mia famiglia, i miei amici. E rispettando il mondo del calcio, che mi ha dato tantissimo.
Tu però ci hai provato con la Figc qualche anno fa...
«Sì, sono stato due anni al settore tecnico. Ma contavo meno del due di coppe quando regna bastoni. Avevo fatto un progetto per i giovani, ma le mie idee e le loro non combaciavano. Ne ho preso atto».
Tu non sei andato molto d’accordo con gli allenatori, vero?
«Io sono sempre stato scomodo. Quando giocavo ho incontrato la fase della tattica esasperata. Chi aveva il mio ruolo non rientrava negli schemi di moda. Ormai schieravano tutti il 4-4-2 e noi eravamo qualcosa che stonava. Poi se segnavamo dicevano che aveva vinto la squadra di Baggio, di Zola, di Mancini e gli allenatori soffrivano. Se oscuri gli altri, se entri in conflitto con gli ego, diventa tutto più difficile.…»
Qual è l’allenatore a cui sei più legato?
«Io sono grato a tutti, da tutti ho imparato qualcosa. A cominciare dal mio primo, che di mestiere faceva il fornaio a Caldogno. Ma se tu ti nascondi o parli male di me perché ti oscuro, allora non possiamo andare d’accordo. Questo era il problema. Io ero pesante. Per questo non facevo interviste, non volevo apparire. La gente mi voleva bene, avevo grandi attenzioni e questo dava fastidio a molti».
C’è qualcuno dei tuoi compagni che non ci sono più con i quali, se potessi, vorresti stare a cena una volta?
«Tanti: Paolo Rossi, Gaetano Scirea, Luca Vialli. E Vittorio Mero, mio compagno di squadra, morto a 27 anni per un incidente d’auto. Li vorrei a cena tutti insieme. Però pago io…».
E se invece incontrassi Roberto Baggio bambino, che consiglio gli daresti?
«Di essere meno buono. Io, se tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto. Credo di aver attraversato la mia vita con umiltà e coerenza. Per questo ho pagato dei dazi, ma va bene così. Qualche volta, per bontà o quieto vivere, ho seguito i consigli di altri e non le mie sensazioni».
Tu a me sei sempre sembrato un eroe malinconico o, se preferisci, poetico…
«Ho sempre rispettato gli altri. Me lo hanno insegnato i miei. Quando giocavo non ero estroverso. Non mi sono mai esaltato, viaggiavo sempre ad altezza della terra. Tendevo a chiudermi, ero molto sensibile. Forse pesava quell’incidente. A diciotto anni ti sei rovinato la vita e tutti ti dicono che non ce la farai, che non giocherai mai più… E tu non sai e non vuoi fare altro nella vita».
Voglio vivere questi anni in modo semplice, godendo le mie passioni con la famiglia e con i miei amici
C’è un errore, nella tua vita, che non rifaresti?
«Sì, c’è. Il rigore di Pasadena. Non riesco a liberarmene».