Corriere della Sera, 2 dicembre 2023
Biografia adi Carolyn Kennedy
Dall’altra parte delle acque scure di Martha’s Vineyard, dove si inabissò sull’aereo pilotato dal marito la notte del 16 luglio 1999, c’era una strana forma di immortalità a aspettare Carolyn Bessette Kennedy. Morta a trentatré anni, quando era una delle donne più belle e famose del mondo, per sempre giovane e da allora mai uscita dalla mente di stilisti, case di moda e stylist, simbolo di quello che oggi si chiama «quiet luxury» e una volta, negli anni Novanta dei quali è una delle icone simbolo con Lady Diana (e, per la moda maschile, Kurt Cobain), si chiamava semplicemente «classe».
Perché la sua lezione di stile è quella di una giovane donna di buona famiglia – figlia d’un medico, lavorava alle pubbliche relazioni per Calvin Klein – che aveva studiato a memoria le icone della vecchia high society che oggi non esiste più, i «cigni» di Truman Capote, Slim Keith e Babe Paley e Ann Woodward, CZ Guest e Pamela Harriman. E aveva aggiornato il loro stile con quello delle avanguardie primi anni Novanta, dei giapponesi come Yamamoto e Comme de Garçons e di Helmut Lang.
Il risultato? Il 2024 nel quale ricorre già il venticinquesimo anniversario della scomparsa sarà il suo anno, nella moda e in libreria: Sunita K. Nair ha appena pubblicato Carolyn Bessette Kennedy: A Life in Fashion, omaggio in un librone patinato che ne analizza con precisione talmudica i look sempre mutevoli – i maglioni a collo alto neri con i pantaloni di velluto a coste beige larghi, gli occhiali neri stretti, le camicie bianche di crepe de chine con la gonna nera fino ai piedi o con i jeans larghi che oggi chiamiamo «boyfriend jeans» e prima di lei non si vedevano mai, le gonne midi portate con gli stivali e con assoluta nonchalance. Tutto analizzato e molto spesso copiato pari pari dalla moda di lusso e quella «fast» che lei non avrebbe amato.
Libro di moda? No, viste anche le prefazioni a cinque stelle di Gabriela Hearst, della first lady Jill Biden e della vice presidente Kamala Harris e di Edward Enninful. «CBK» è anche un riferimento per Amy Smilovic che la pone al centro del suo libro Creative Pragmatism, nel quale mira a insegnare «l’equilibrio tra modernità e funzionalità» del quale proprio la moglie di John-John Kennedy è simbolo immortale.
I lunghi capelli biondissimi e drittissimi che da allora condannano generazioni di donne a battaglie con asciugacapelli a reazione e all’odio per le giornate umide con conseguente effetto «frizz», il trucco spesso impalpabile nella sua semplicità, a suo agio in abito da sera come in jeans, americanissima ma anche europea e giapponese.
Usò la moda come mezzo non come fine, da stratega finissima: morì senza rilasciare interviste perché dalla suocera Jackie – che non conobbe – imparò l’importanza decisiva del silenzio, del mistero e degli spazi tra le parole che il pubblico è costretto a riempire da sé, una volta che ne hai catturato l’attenzione.
Icona pre-Internet, l’ultima, analogica e elegante, antidoto alla caciara social di questo primo quarto del nuovo millennio che lei non vide mai, rimedio alla kardashianizzazione della cultura pop con i look banali copiati bovinamente dai follower in attesa del prossimo clic, Carolyn capace di andare oltre la tristezza infinita della moda dei finti poveri come di quella altrettanto disperata dei finti ricchi, sempre a suo agio ma sempre remota, praticamente uno screenprint warholiano in carne e ossa, e ora immortale nelle fotografie di un’era lontana, gli anni Novanta che ritornano, o forse non sono mai passati anche grazie a lei, la classe è classe e non si compra online, tantomeno ai saldi del Black Friday, né ora né mai.