La Stampa, 2 dicembre 2023
Prima o poi le donne non partoriranno più. Saremo tutti figli delle macchine
per sempreNon partoriremoUn agnellino giace beato con gli occhi chiusi. Immerso nel sonno, muove appena le zampe e le orecchie; il suo musetto si contrae come per annusare qualcosa, forse il profumo di un prato immaginario. Chissà se sta sognando. L’animale è racchiuso in una busta di plastica riempita di liquido trasparente munita di ganci metallici e collegata a lunghi tubi di gomma. È stato estratto chirurgicamente dall’utero della sua madre biologica e trasferito all’interno della sacca artificiale quattro settimane prima, quando era ancora un feto esile e completamente glabro. Immerso in un liquido amniotico del tutto sintetico, nutrito con un catetere inserito nel suo cordone ombelicale, si è sviluppato in modo del tutto indistinguibile da un agnello cresciuto naturalmente all’interno del ventre materno.La tecnologia, battezzata biobag, fu sviluppata nel 2017 da un gruppo di ricerca dell’ospedale pediatrico di Philadelphia. Si tratta di uno degli esempi più riusciti e più discussi di crescita del feto al di fuori dell’utero, un processo conosciuto con il nome di ‘ectogenesi’. La tecnologia ha anzitutto l’obiettivo di aumentare le possibilità di sopravvivenza per i neonati prematuri, sostituendo gli incubatori utilizzati attualmente con un ambiente più somigliante a quello fisiologico. Si tratterebbe, cioè, di quella che è comunemente definita una ‘ectogenesi parziale’, in cui l’utero naturale è sostituito da quello artificiale soltanto nelle fasi finali dello sviluppo del feto. In realtà, nessuno sa quali siano davvero le potenzialità di questa tecnologia: gli esperimenti, infatti, non hanno mai anticipato il limite stabilito convenzionalmente per la viabilità fetale negli esseri umani. “Se ti spingi oltre” ha commentato Alan Flake, il medico a capo dello studio, “è molto probabile che finirai per aprire un vaso di Pandora”. Oggi l’ectogenesi totale è ancora una possibilità lontana, ma non così remota come si potrebbe immaginare. Le tecnologie attuali ci permettono già di far nascere embrioni ‘in provetta’ e di farli crescere al di fuori del corpo umano per almeno due settimane. Tra la crescita di embrioni in vitro e ‘grembi artificiali’ come la biobag, il periodo in cui l’utero biologico è strettamente necessario alla riproduzione umana è attualmente soltanto di venti settimane, un gap che potrebbe ridursi sempre di più nel prossimo futuro. La possibilità tecnologica della riproduzione al di fuori dell’organismo appartiene da secoli al nostro immaginario culturale, dai misteriosi esperimenti dell’alchimia rinascimentale alla fantascienza inquietante di Matrix. Di volta in volta la capacità di svincolare del tutto la riproduzione della specie umana dal corpo biologico è stata dipinta come un trionfo tecnoscientifico o come un incubo distopico, suscitando entusiasmo e indignazione, inquietudini e speranze. (...)A riaccendere l’attenzione su questo tema, oggi, sono fattori sociali profondi: ad esempio, la preoccupazione diffusa per il collasso demografico nell’occidente sviluppato, sostenuta dall’evidenza che, nel capitalismo neoliberale, la gestazione e la maternità sono per molte donne incompatibili con il lavoro e gli studi. Allo stesso tempo, il crescente riconoscimento di nuove forme di famiglia al di fuori della famiglia eterosessuale ci spinge a immaginare nuovi modi – anche assistiti dalla tecnologia – in cui diventare genitori. In effetti, sotto molti punti di vista, la possibilità di un’ectogenesi totale appare come un’opportunità senza precedenti di appianare, una volta per tutte, la disuguaglianza intrinseca al lavoro riproduttivo, delegandolo interamente alla tecnologia. Sulla scia delle posizioni di Firestone, ad esempio, la filosofa Anna Smajdor ha definito lo sviluppo dell’ectogenesi totale un “imperativo morale”, al pari degli sforzi della medicina per curare le disabilità. “Così come un tempo si riteneva assurdo che le donne votassero o andassero a cavallo” scrive Smajdor, “allo stesso modo potrebbe un giorno apparirci assurdo che fossero incatenate ai processi degradanti e pericolosi della gravidanza e del parto semplicemente a causa della nostra incapacità di immaginare un’alternativa”.Se l’origine dell’oppressione femminile è davvero biologica, l’ectogenesi trasformerebbe la differenza sessuale in un accidente genetico come tanti altri, rendendo il suo significato culturale quasi completamente insignificante. Forse l’identità di genere come la conosciamo oggi si dissolverebbe del tutto, e con essa anche le disuguaglianze sociali ed economiche che la accompagnano. E se la genitorialità diventasse del tutto svincolata dalla biologia sessuale, anche l’idea che esista una ‘famiglia naturale’ più legittima di tutte le altre potrebbe apparirci un giorno solo come un retaggio del passato. D’altra parte, per quanto queste prospettive possano risultare accattivanti, una lettura femminista dell’ectogenesi non può dimenticare che il rapporto tra l’oppressione di genere e la tecnologia è, da sempre, molto più complesso di quanto appaia in superficie. La storia delle tecnologie riproduttive ha mostrato in molte occasioni la loro capacità di rafforzare, anziché abbattere, le strutture di potere e le contraddizioni della società in cui si sviluppano. (...)Il tema dell’ectogenesi ha la capacità di illuminare la complessità delle posizioni femministe nel loro rapporto con la biologia del corpo da un lato e con la tecnologia dall’altro. È, ad esempio, legittimo domandarci se la nostra percezione della gestazione e della maternità come una limitazione della nostra libertà non sia a sua volta il risultato di una cultura patriarcale e misogina. Allo stesso modo, anche la convinzione che la complessità fisiologica e affettiva della gravidanza possa essere interamente sostituita da un sistema meccanico è estremamente riduttiva, e sembra replicare la visione patriarcale del corpo femminile come un mero ‘contenitore’. “Un’etica della cura che attinge al femminismo radicale, culturale ed ecofemminista rivela i potenziali lati negativi dell’utero artificiale” ha osservato la filosofa Maureen Sander-Staudt. “L’ectogenesi ha anche il potenziale di spostare il significato culturale di gravidanza, nascita e maternità, alienando ulteriormente l’umanità dalla natura”. (...)Quando immaginava una società liberata dal lavoro riproduttivo, Shulamith Firestone era fiduciosa che questa trasformazione tecnologica avrebbe determinato anche la scomparsa della famiglia patriarcale. Le bambine nate dagli uteri meccanici della sua utopia tecnofemminista sarebbero state allevate dalla comunità, costruendo reti sociali e affettive svincolate dai rapporti di parentela e di sangue. L’automazione della riproduzione si sarebbe accompagnata anche all’automazione del lavoro, annullando non soltanto le disuguaglianze di genere ma anche quelle di classe. “La doppia maledizione, che l’uomo debba guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, e che la donna debba partorire con dolore, verrebbe annullata dalla tecnologia”, scriveva. “Per la prima volta sarebbe possibile una vita veramente umana”. Firestone, tuttavia, era profondamente consapevole che le tecnologie sono strumenti ambigui, i cui significati politici non possono in nessun caso essere svincolati dalla società che li ha prodotti. “Nelle mani della nostra attuale società e sotto il controllo degli scienziati attuali (ben pochi dei quali sono femmine, e meno ancora femministe)”, scriveva, “qualunque tentativo di usare la tecnologia per ‘liberare’ non importa chi è sospetto”. Davanti alla possibilità che l’ectogenesi diventi realtà, credo che l’insegnamento di Firestone rimanga ancora profondamente attuale. L’entusiasmo per il superamento dei limiti imposti dalla biologia non deve farci dimenticare quelli, ben più sottili e pericolosi, che derivano dalle strutture di potere in cui siamo immerse.*Laura Tripaldi (1993) è una scrittrice e ricercatrice indipendente. Il suo ultimo libro è “Gender Tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne” (Laterza, 2023) —