La Stampa, 2 dicembre 2023
Alla fiere della ricchezza
La vita o è stile o è errore, diceva Giovanni Arpino in tempi meno grevi dei nostri, quando lo stile non era né un colore né un prezzo ma un modo, una manifestazione dello spirito. A noi, involgariti da fretta e ambizione, è dato il lifestyle, non lo stile. Ed è qualcosa che si va a cercare fuori e che si paga per avere. Gwyneth Paltrow, ormai controversa (che peccato), non più attrice ma profeta (profetessa?), lo sa e ci fattura, lautamente, sopra. Sul suo epico portale, piattaforma, Amazon per eccentriche ribelli, goop, tra le molte liste per regali, ce n’è una in cui consiglia un vibratore da 15mila dollari, ricoperto d’oro 24 carati; un corso di gong con allenatore di gong a 2mila euro (mai sottovalutare l’importanza di saper suonare il gong, a casa propria o d’altri, in tempi propri o altrui, tibetani o ciarlatani che siano); 3 notti alle Fiji in un “eco-resort” a conduzione familiare a soli 40mila dollari (sconto comitiva!); un porta posate da tavola a forma di escargot venduto a soli 600 dollari. Dice il Guardian che tutta questa ostentazione fa parte di una scelta precisa di Paltrow: è una performance, nel senso più preciso e puro di performing art, e cioè un’azione dimostrativa che mettendo in scena il dettaglio di un tempo, lo mette in questione, lo denuncia.
Paltrow è regina dell’ambiguo (è entrata nelle nostre vite con un film, Sliding doors, che raccontava che la vita può cambiare completamente anche solo perdendo una fermata della metropolitana, e in quel film lei aveva occhi che facevano quello che solo il sorriso di Monna Lisa sa fare: rappresentare la vertigine del doppio senso). È difficile, anzi impossibile sapere per quale fine agisce Paltrow, ma è affascinante seguirne la parabola: da quando il cinema è per lei un affare minore, è diventata guru di benessere; ci ha detto cosa e come mangiare; ha creato e venduto candele al “profumo della mia vagina”; si è sottoposta ad ozonoterapia rettale e ha raccontato l’effetto che fa; è finita sotto processo, la scorsa primavera, con l’accusa di aver travolto, sciando, un signore, che ha poi abbandonato sulla neve, senza degnarsi nemmeno di soccorrerlo, un signore di 76 anni, Terry Sanderson, ottico in pensione, che le ha chiesto un risarcimento di 300 mila dollari che, poverino, mai avrebbe immaginato che non solo avrebbe perso miseramente la causa, ma sarebbe finito su tutti i giornali e social del mondo, in un processo per il quale lei ha interpretato la sua parte migliore degli ultimi anni, quella dell’imperatrice dell’universo che accetta di rinunciare alla sua immunità, si veste da persona comune, compassata e impeccabile (i quotidiani parlavano di courtroom outfit) e va a dimostrare che la legge è uguale per tutti, e che un’ ultraricca può subire un torto e che è difficilissimo stare dalla sua parte, lo è sempre e lo è ancora di più in questo nostro tempo in cui tutti detestano i ricchi perché non c’è niente che vorrebbero essere di più: ricchi e basta, ricchi per sempre – Sfera Ebbasta mentiva: «Saremo ricchi, ricchi per sempre, o forse no, vabbè fa niente». Durante quel processo, Paltrow si è definitivamente svestita dei panni dell’amica del popolo, che qualche anno fa aveva provato, con poco successo, a indossare, quando, nel 2015, aveva raccontato il suo tentativo di vivere con 29 dollari a settimana, per dimostrare che i buoni pasto concessi dal governo americano erano insufficienti e insultanti. Otto anni dopo, forse, Paltrow riuscirebbe a dirsi d’accordo con il ministro Lollobrigida, e a sostenere che «i poveri spesso mangiano meglio dei ricchi»: in questi otto anni è cambiato tutto, ci siamo impoveriti in un modo così drammatico e iniquo che nemmeno agli attori hollywoodiani importa niente della carità. Anzi. Funziona l’ostentazione della ricchezza tanto che c’è qualcuno disposto a giurare che si tratti di performing art. E se pure performing art fosse, cosa ci direbbe, se non che siamo attorcigliati nella società più classista di sempre?
I Cinquestelle volevano abolire la povertà e sono riusciti semplicemente a confonderla con la miseria: il populismo, dappertutto, ha fallito nell’impresa di avvicinare classi, persone, ruoli. La prossimità con il popolo non è piaciuta a nessuno: i soldi servono non a essere felici, ma ad avere a che fare con gli altri il meno possibile.
C’è il quiet luxury (lusso frugale), certo: Guia Soncini scriveva questa estate su Lucy: «Se siete così ricchi, perché sembrate dei poveracci?». E notava che i ricchi d’oggi sono cafoni, brutti, volgari, grevi, spaventosamente ordinari. Il punto è che lo sono per ignoranza e non per senso di colpa. Lo sono perché non sanno, come nessuno sa, riconoscere le bellezza, non hanno, come nessuno ha, buon gusto. S’annoiano al punto che, sugli yacht, fanno sport: mostrano cosa possono avere di più e non cosa possono fare di più.
A fare di più con i soldi sono rimaste le donne, perché non vengono pagate come gli uomini, e allora è ancora appassionante vedere una ricca attrice che consiglia un vibratore per milionari sul suo portale di filosofia di vita: ha il sapore della giustizia di genere, un vago sentore femminista.
Il 2023 è stato l’anno delle «donne che non piangono più: fatturano»,verso guida della canzone BZRP Music Session #53, dedicata da Shakira al suo ex, il calciatore Piqué, a gennaio scorso. È stato l’anno di Greta Gerwig che ha guadagnato al cinema come mai prima nessuna donna regista, grazie a un film, Barbie, sul patriarcato. È stato l’anno del trionfo al botteghino di Paola Cortellesi con C’è ancora domani, il miglior film sulla violenza sulle donne fatto in questo Paese negli ultimi vent’anni (trenta?). Tanto Cortellesi quanto Gerwig hanno fatturato su cose per le quali, per secoli, abbiamo, tutte pianto moltissimo. Lo hanno fatto nell’anno in cui s’è cominciato finalmente a parlare di violenza economica sulla donne, e vedremo di fatturare anche su quella, ragazze. Senza oggetti vibranti, pur sempre patriarcali. —