La Stampa, 2 dicembre 2023
Perché lo Stato europeo di Draghi è un’idea forte ma irrealizzabile
Così com’è strutturata oggi, ha detto l’altro giorno Mario Draghi, l’Unione Europea non è adeguata alle sfide del nostro tempo: troppi membri, una frammentazione eccessiva, un sistema decisionale farraginoso, un immenso spreco di risorse. A questa diagnosi infausta l’ex Presidente del Consiglio ha aggiunto però una cura: l’Europa deve diventare uno Stato, ossia dotarsi dei poteri di cui ha bisogno sottraendoli alle capitali nazionali. Soltanto così il Vecchio Continente potrà partecipare, con qualche possibilità di successo, al sempre più rischioso gioco globale.
Non ci vuole molto per condividere l’analisi di Draghi, basta fermarsi un istante a riflettere sui tanti problemi che assillano la nostra epoca e che sono tutti troppo grandi per gli Stati nazionali europei – dall’approvvigionamento di materie prime al cambiamento climatico, dai conflitti regionali alla gestione dei flussi migratori. In astratto dunque, se uno Stato non è altro che uno strumento umano la cui costruzione può esser pianificata razionalmente alla luce della funzione che esso deve svolgere, Draghi ha ragione sulla diagnosi e anche sulla cura: in Europa lo strumento “Stato nazionale” non è più in grado di svolgere i propri compiti, e occorre allora creare uno Stato continentale.
In concreto, però, gli Stati non sono mai stati creati razionalmente soltanto a partire dalle funzioni che le sfide globali assegnavano loro. La geografia politica non l’ha disegnata Cartesio – semmai la storia, e quasi sempre col sangue, purtroppo. Certo, sappiamo bene che gli Stati, la loro esistenza, i loro confini, non hanno nulla di “naturale”; sappiamo che hanno costruito essi stessi, in larga misura, le comunità nazionali che pretendono di esprimere; sappiamo che nel tempo quelle comunità si sono modificate in profondità, che i popoli si muovono da sempre, che gli Stati sono stati disfatti e rifatti infinite volte. La storia umana – banale dirlo – è cambiamento. Ma ciò non implica affatto che le condizioni prodotte da quella storia siano arbitrarie e prive di senso, né tanto meno che sia possibile modificarle a piacimento, soprattutto in tempi brevi. Gli Stati che la storia ha partorito sono sì il frutto di atti ed eventi contingenti e arbitrari, ma attraverso quegli atti ed eventi, accumulatisi nel tempo, sono entrati a fondo nella vita quotidiana dei propri cittadini, hanno costruito un senso di appartenenza, si sono fatti comunità politica. E tanto più se quegli Stati sono anche democrazie: in quel caso la comunità politica, arbitraria e contingente quanto si vuole, è diventata pure il luogo eletto dell’autodeterminazione collettiva.
La storia dell’integrazione europea – che ha anch’essa molto di contingente e arbitrario – è stata attraversata fin dall’inizio dalla tensione fra il protagonismo dei singoli Stati e la spinta verso la costruzione di un nuovo Stato continentale. Tanto la nascita delle comunità europee, negli anni Cinquanta del Novecento, quanto quella dell’Unione, fra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta, sono state rese possibili delle pressioni alle quali erano sottoposti in quei momenti gli Stati nazionali e dalla loro debolezza: gli esiti della Seconda guerra mondiale e, per quel che riguarda l’Italia e la Germania Ovest, la devastante sconfitta bellica nel primo caso; l’integrazione dei mercati mondiali e il conseguente infiacchirsi della dimensione politica nel secondo. Ciò nonostante, sia negli anni Cinquanta sia nei Novanta l’integrazione è progredita soprattutto sul terreno economico, ma non è riuscita a penetrare più di tanto negli ambiti più delicati per la sovranità degli Stati, a partire da quello della politica estera e di difesa.
Stanno vivendo oggi, gli Stati nazionali, un momento di crisi tale da render possibile un salto di qualità ulteriore dell’integrazione europea, e finalmente non soltanto sul terreno economico, come reclama il Presidente Draghi? In difficoltà quegli Stati lo sono senz’altro, e non poco. Ma lo è pure, e non poco neppure lei, l’Unione Europea. A tal punto che negli ultimi anni le preferenze delle opinioni pubbliche si sono mosse dall’Europa verso gli Stati: la fiducia nell’Unione è calata, mentre sono cresciuti i voti dei partiti cosiddetti sovranisti, convinti che le soluzioni ai problemi del giorno possano esser trovate non trasferendo più potere a Bruxelles, ma al contrario riportandolo da Bruxelles verso le capitali nazionali. Draghi immagino definirebbe queste preferenze irrazionali, frutto di un drammatico errore di prospettiva, rivolte nella direzione diametralmente opposta a quella giusta. Ciò nondimeno, restano un fatto politico.
Viene da chiedersi allora se immaginare un ampio trasferimento di sovranità dai singoli Stati all’Unione, nelle attuali circostanze, non sia un’operazione di grande forza cartesiana, certo, ma scarsamente realistica. E se non valga piuttosto la pena lavorare su un mix più articolato e flessibile di soluzioni, meno grandioso, che passi senz’altro per il rafforzamento e la razionalizzazione dell’Unione, ma anche per una più stretta cooperazione fra gli Stati tale da non metterne in pericolo, ma anzi confermarne la sovranità. Del resto, è stato proprio Draghi a firmare il Trattato del Quirinale con la Francia e a impostare un accordo bilaterale con la Germania. Per non dire degli sforzi che ha compiuto in Nord Africa al fine di rendere l’Italia autonoma dal gas russo. Quest’approccio gradualistico porta con sé un rischio: che le crisi esterne si aggravino ulteriormente e le soluzioni individuate si rivelino insufficienti. In quel momento Draghi potrebbe ricordarci che avremmo dovuto prepararci per tempo. Ma quella di prepararsi per tempo è una richiesta ambiziosa, e l’integrazione europea è rimasta troppo spesso vittima delle proprie ambizioni. —