il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2023
Il divavolo veste Pernod
I miracoli accadono solo a chi ci crede: gli alcolisti, per esempio. Come il protagonista eponimo della Leggenda del santo bevitore, racconto di Joseph Roth (1894-1939), uscito postumo poco dopo la sua morte. Di polmonite ma in preda a delirium tremens.
Dopo Piero Mazzarella, oltre quindici anni fa, la regista Andrée Ruth Shammah sceglie ora il primattore Carlo Cecchi, che è sempre una garanzia, sapendo trasformare un’amnesia in un gioco, una ripetizione in una battuta: il suo è un santo bevitore poetico, stralunato, triste, che va e viene dall’Inferno dell’alcol al Paradiso della santa Teresa, senza iato tra i due mondi, come non ne conosce tra sonno e veglia, sogno e realtà. Lo affiancano sul palco i garbati ed empatici Roberta Rovelli e Giovanni Lucini, a cucirgli attorno una trama metateatrale, una storia nella storia, senza tempo né appunto luogo, Inferno o Paradiso che sia.
Già trasposta al cinema da Ermanno Olmi con Rutger Hauer (film Leone d’oro a Venezia nel 1989), questa è la Leggenda di un uomo qualunque, anzi miserabile, che ha un passato da minatore espatriato sans papiers, poi da assassino, galeotto e vagabondo sotto i ponti della Senna; anno di disgrazia 1934: il senso della sua vita tapina – senso in senso letterale, come direzione – si concretizza infine nell’“adempimento di un dovere morale”, ovvero ripagare un debito di 200 franchi alla piccola santa Teresa custodita e venerata in una chiesa parigina. Ma la strada per l’Averno è lastricata di buone intenzioni: così Andreas Kartak – questo il nome del clochard – deve superare diversi demoni – l’alcol, le donne, gli amici truffaldini… – prima di raggiungere l’agognata meta, la sagrestia di una chiesetta, e riscattare la sua esistenza votata alla “lenta distruzione a cui i bevitori sono sempre pronti; i sobri non la proveranno mai”.
Questo “sogno-miracolo” o “racconto-parabola” ha il sapore del testamento di Roth, anch’egli esule in Francia: tra gli ultimi testimoni della Mitteleuropa al tramonto, lo scrittore scappa con estrema lucidità dalla Germania nel ’33, esattamente il giorno in cui Hitler diventa cancelliere. All’amico e collega, altrettanto profetico, Stefan Zweig, Joseph scrive: “Ci avviciniamo a grandi catastrofi. A parte quelle private – la nostra esistenza letteraria e materiale è annientata – tutto porta a una nuova guerra. Io non do più un soldo per la nostra vita. Si è riusciti a far governare la barbarie. La Germania è morta… È il settimo girone dell’inferno, la cui filiale sulla terra ha il titolo di Terzo Reich”, in un cortocircuito, esistenziale e politico, che lo porterà a diventare filomonarchico, lui che era stato socialista; filoaustriaco, lui che era nato alla periferia dell’impero a Leopoli, in Ucraina; cattolico, lui che veniva dalla borghesia illuminata dell’Est Europa.
Alternando la prima e la terza persona, la riscrittura per palcoscenico è aggraziata tanto quanto l’allestimento: rarefatto, lirico e onirico insieme. Lo spazio – disegnato da Gianmaurizio Fercioni con le “suggestioni visive” di Luca Scarzella e Vinicio Bordin e le luci di Marcello Jazzetti – è un diorama in bianco e nero di proiezioni e sipari, finestre e specchi: il tutto avvolto nel “velo dell’ironia”, lo stesso velo dietro cui si nasconde Dio, probabilmente, mentre il diavolo veste Pernod, 40 percento di gradazione alcolica contro “la grande infelicità che non diminuisce”. E alla fine la Leggenda è altresì un kaddish luttuoso, una preghiera degli ultimi, gli ultimi uomini buoni: “Conceda Dio a tutti noi bevitori una morte così lieta e bella”.
Milano, Teatro Franco Parenti, fino al 6 dicembre; Torino, Teatro Gobetti, dal 12 al 17 dicembre