Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  dicembre 02 Sabato calendario

Manzoni e il Natale del 1883

L’immagine è la stessa della celebre canzone di Bob Dylan: like a rolling stone, come una pietra che rotola e non si ferma più, fino a quando non si schianta a valle. Ora, vero è che le vie della letteratura sono imprevedibili, ma resta altamente improbabile che il più eccentrico fra i premi Nobel sia anche un conoscitore degli Inni sacri. Eppure il dato rimane, in tutta la sua evidenza: i primi versi del Natale contengono la stessa metafora di cui Dylan si servirà a distanza di quasi un secolo e mezzo. La si può considerare una coincidenza oppure – è quello che stiamo per suggerire – come una conferma delle pro-fondità che la poesia di Alessandro Manzoni riesce a raggiungere senza che il lettore, nella sua ingenuità, neppure se ne accorga. Testi alla mano, la pietra dell’inno rivendica una caratteristica ancestrale del tutto ass ente nella canzone. L ì il sass o che rotola senza posa sta a rappresentare il decadimento sociale della protagonista, che da ragazza di buona famiglia si ritrova a sopravvivere per strada, ridotta ormai al fantasma di se stessa. Ma questa situazione, pur nella sua conclamata drammaticità, non è altrettanto irreversibile e fatale della caduta evocata da Manzoni. Che non è semplicemente una caduta, appunto, non è lo scarligare (in questo caso il milanesismo è d’obbligo) canticchiato dall’abate Parini in una delle sue Odi, con un costrutto moraleggiante abbastanza simile a quello che sarà poi di Dylan: chi cade attende una mano che lo aiuti a rialzarsi e, se la mano non viene offerta, ecco che si finisce nel fango like a complete unknown, come un perfetto sconosciuto.
Manzoni (che morirà per i postumi di un incidente analogo a quello descritto da Parini) è molto più radicale. Anzi, è di una radicalità assoluta. La caduta con cui si apre Il Natale è la Caduta per antonomasia, è il giogo del peccato dal quale l’umanità non riuscirebbe a emanciparsi se il «Pargolo» prodigioso non venisse in soccorso. Il resto dell’inno, con il suo andamento più disteso e la sua esibita struttura narrativa, quasi impallidisce al confronto di questo attacco memorabile, al quale l’alternanza di settenari sdruccioli, tronchi e piani imprime un ritmo implacabile e pressoché minaccioso. La discesa del masso verso il fondo si risolve in partitura musicale, e la musica riconduce a un immaginario archetipico, al quale Manzoni ha accesso in virtù di un’intuizione tanto elementare quanto esatta.
Nel Natale, dunque, sono già presenti gli elementi che si ritroveranno nel Natale del 1833, magnifico incompiuto che sprigiona il fascino perturbante di un prigione michelangiolesco. Ancora una volta, la poesia è già tutta nel primo verso, «Sì che Tu sei terribile!», la cui semplicità è subito contraddetta dalla scoperta del destinatario di quel vocativo. Il «Pargolo» (sì, l’appellativo ricorre anche nel Natale del 1833) si mani-festa con volto spietato inatteso e il mistero della nascita si intreccia con lo strazio del lutto. Sullo sfondo c’è la ben nota vicenda della morte di Enrichetta Blondel, testimoniata dalle lettere raccolte in questa antologia insieme con diverse stesure delle due poesie appena ricordate. Sono i materiali su cui si basò Mario Pomilio per il suo Il Natale del 1833, che rimane il più manzoniano dei romanzi ispirati a Manzoni e che a sua volta è generosamente campionato in queste pagine.
Quello che ne esce è, nel complesso, un ritratto decisamente e giustamente lontano da ogni tentativo di riduzionismo agiografico. Il Manzoni natalizio è un autore severo, a tratti duro, continuamente attratto da quella dimensione archetipica e ancestrale della quale abbiamo provato a dare conto in maniera sommaria. Nella letteratura italiana successiva, solo Clemente Rebora arriverà a spingersi in questa interiorità inospitale. E non può essere un caso che la medesima lucidità di sguardo accomuni un sacerdote rosminiano e uno scrittore che di Rosmini fu amico. È decisiva, probabilmente, la natura niente affatto consolatoria del platonismo rosminiano, che è un sistema per esplorare il mondo delle idee senza mai dimenticare che il mondo tutto intero è stato salvato e redento da quel Pargolo terribile e provvidente, la cui presenza non smette di interrogarci e che noi non smettiamo di interrogare. Noi, che siamo creature cadute, come una pietra che rotola.