la Repubblica, 1 dicembre 2023
Intervista a Christian De Sica
Non cinepanettoni, ma I limoni d’inverno. In una sorta di benedetto contrappasso artistico Christian De Sica, dopo tanti cialtroni natalizi, porta sullo schermo e in piattaforma ritratti di uomini che amano davvero le donne. Nel film di Caterina Carone (in sala con Europictures) l’attore, 72 anni, è un professore malato d’Alzheimer che stringe una dolce amicizia con la dirimpettaia Teresa Saponangelo. Dal 21 su Prime Video lo vedremo nella serie Gigolò per caso, in cui soddisfa senza giudizio e con partecipazione, le più stravaganti fantasie delle clienti.
È un film importante per lei.
«Sì. Racconta di due solitudini che s’incontrano. Anche nelle situazioni più difficili si può essere felici, se ci si crede. Dopo tanti misogini, mascalzoni, maschilisti, poter fare un personaggio positivo, un uomo perbene che scrive un libro a favore delle donne è stato bellissimo. Oggi c’è bisogno di far vedere il bene e il bello che c’è anche nel nostro Paese: non se ne può più di film e serie violenti».
È stato un set facile?
«Ho evitato stereotipi, seguito il consiglio di mio padre: dire le battute dopo aver guardato negli occhi e ascoltato l’attrice che hai davanti. Sono stato vicino a me stesso, io sono così, di carattere».
E il gigolò nella serie?
«Una commedia piena di attrici, Gloria Guida, Ambra Angiolini, Stefania Sandrelli, Isabella Ferrari, Sandra Milo, un vecchio gigolò che dopo l’infarto obbliga il figlio, Pietro Sermonti, ad aiutarlo per non perdere il parco clienti. Un uomo che comprende e rispetta i desideri delle donne».
Di mascalzoni ne ha fatti tanti.
«Sì ride col demonio, non con San Francesco, quei personaggi li prendevo in giro, ma magari le ho fatte diventare simpatiche queste carogne. Ma ho illustri precedenti prima di me lo faceva Alberto Sordi».
Nel suo libro appena uscito, “Due o tre cose che mi sono capitate. Gli incontri di una vita”, c’è un capitolo dedicato a Sordi, che le diceva “mi devi accendere un lumicino”.
«Quando ho iniziato avevo un fisico borghese, i comici sono popolari; per essere credibile come fratello di Jerry Calà o amico di Carlo Verdone serviva il dialetto: mi sono ispirato a Sordi che era uno di famiglia. Lo consideravo uno zio, era sempre a casa mia. Il suo primo film, Mamma mia che impressione glielo ha prodotto mio padre».
Il “cattivo” Paolo Villaggio?
«Ci ho fatto tanti film insieme. Era colto e intelligente, ma anche molto cattivo. Aveva un umorismo cattivo. È stato un grande, dopo Totò c’è lui. Alberto era sempre sé stesso, Villaggio ha inventato una maschera che non c’entrava nulla con lui».
“Zio” Roberto Rossellini.
«Quando girò nell’estate ‘58 Il generale Della Rovere con mio padre, invece di mandarci a Ostia o Ischia in vacanza – loro giravano a Cinecittà – andai in questa villa a Santa Marinella di proprietà di Ingrid Bergman e Rossellini e conobbi i figli, Robertino, Isabella e Ingrid, diventammo amici. Poi a 18 anni mi sono fidanzato con Isabella. Volevo fare l’attore e per non rompere le scatole a mio padre, ruppi le scatole a Roberto, che mi fece fare un luogotenente criminale a un processo di stregoneria a Port-Royal. Avevemo pochi soldi e girammo a Frascati, ma venne bene lo stesso, con la sua regia. Roberto è uno degli uomini più affascinanti che abbia conosciuto nella mia vita. Intelligente, simpatico, bugiardo... È stato una bella scuola».
Maurizio Costanzo.
«Con lui ho iniziato la tv, Alle 7 della sera, lui era ancora solo un autore che scriveva le battute comiche per me, Villaggio. Subito dopo mi chiamò Antonello Falqui per gli spettacoli come Bambole non c’è una lira, Studio Ottanta. A Maurizio devo tanto. Aveva paura di prendere l’aereo da Roma a Milano, partivamo insieme col vagone letto di notte, dopo le prime puntate alcuni ragazzini mi salutarono, io abbassai la testa e lui mi disse “tu devi salutarli, questi sono il tuo futuro”».
Con sua moglie Silvia condividete tutti i ricordi.
«L’ho conosciuta facendo i compiti a casa di Carlo. Lei aveva 14 anni, io 7 di più. Non ci siamo più lasciati, ridiamo insieme, c’è un bel rispetto. Siamo cresciuti e scoperto tutto; amore vita lavoro. È la persona più importante della mia vita, con mamma e papà»
E ora Brando con il suo “Mimì – Il principe delle tenebre”.
«È bravo, all’inizio ha sentito il peso della famiglia, nonni, zio, padre, cugino. Ma ha studiato regia a Los Angeles, ed è preparatissimo. Il suo film l’ho visto dieci volte: ha avuto critiche che io mai nella carriera».
La sua droga si chiama Frank Sinatra?
«Appartengo alla generazione dei Rolling Stones ma avendo un padre che mi ha fatto a cinquant’anni sono cresciuto con quella musica lì, tanto che mio fratello ha fatto il musicista. Quando ho un problema, i guai, le tasse, mi metto Sinatra e mi rialza l’umore».
Al Piper con Renato.
«Eravamo coetanei, andavamo al Piper, lui era nei collettoni di Rita Pavone. Usciva di casa vestito normale, si metteva le calzamaglie e le piume. Eravamo magri magri, oggi siamo Marisa Merlini e Sora Lella».
Bettino Craxi e il mare di Tunisi.
«Quando Carlo si è sposato con Gianna, siccome ha paura dell’aereo di chiese di fare il viaggio di nozze insieme. Siamo partiti tutti per Tunisi, dove in un bar abbiamo conosciuto Craxi. Io e Silvia siamo diventati suoi amici, tornati a casa sua. La mattina ci svegliavamo presto, andavo in salotto e c’erano tutti i giornali italiani. Tutte le mattine, dopo il caffè chiamava Andreotti, che definiva “un uomo olimpionico”. Mi ha fatto tenerezza che dopo tanti anni, vedere che quest’uomo così potente era sepolto in una piccola bara sulla sabbia».
Carolina di Monaco, “la napoletana”...
«Sì, aveva la vitalità delle ragazze napoletane sveglie. Era coltissima, potevi parlarci di tutto, dalla letteratura al melodramma. Quando era fidanzata con Robertino Rossellini ci invitarono al palazzo a Montecarlo. Ma poi lui non l’ha voluta sposare ed è finita».
L’avventurosa Ava Gardner?
«Andammo a trovarla con i miei genitori a Madrid, era già grande, aveva finito di girare La Bibbia con John Huston. Durante la serata, aveva bevuto molto, mi fa “suona per me”, e io incapace le strimpello appresso mentre canta The girl from Ipanema. A un certo punto i miei vanno a dormire, lei mi ferma, “andiamo a ballare”. La porto al Corral de la Moreria dove si scatena nel flamenco, ho ancora l’immagine di lei che balla, mentre me ne vado».
Il sogno nel cassetto riguarda i suoi genitori.
«Sì, e forse nel cassetto ci resterà. Sono un vecchio attore, non si crede in me come regista drammatico. Eppure La porta del cielo è più attuale che mai, la storia di papà chiuso nella Basilica di San Paolo che continua a fingere di girare anche quando la pellicola è finita per restare dentro con trecento persone, compresi tanti ebrei, salvandoli dai nazisti. Perché è una storia di amicizia, bontà, fratellanza, umanità, in quel periodo così difficile del nostro Paese».