la Repubblica, 1 dicembre 2023
Intervista a Jacopo Veneziani
«Da bambino associavo il divulgatore al viaggiatore. In tv, vedevo Alberto Angela sotto le piramidi e, a 6-7 anni, dicevo: voglio fare lo stesso».Jacopo Veneziani sarebbe un enfant prodige, se non fosse che in Italia gli enfant prodige hanno cinquant’anni e lui ne ha 29. Laureato in storia dell’arte alla Sorbona, è diventato in poco tempo non solo un divulgatore formato social e tv, ma anche, nel 2022, il presidente di un museo: la Galleria d’arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza, la sua città.
Ha appena pubblicato il terzo libro, il primo saggio storico: La grande Parigi (Feltrinelli), dove racconta la capitale francese nei primi vent’anni del Novecento, quando Picasso e un manipolo di giovani artisti stavano per rivoluzionare le immagini.
Veneziani, andiamo con ordine. Come è cresciuto quel bambino che voleva essere Alberto Angela?
«Per molto tempo non ho confessato quel desiderio, temendo di non essere preso sul serio. Intanto, grazie a una professoressa molto brava, al liceo alimentavo la mia passione per la storia dell’arte. Poi, a Parigi, all’università, mentre studiavo in biblioteca, mi sentivo in una bolla sganciata dal mondo. Avevo la sensazione che un sapere esclusivo contraddicesse la stessa idea dell’arte che, per sua natura, è rivolta a tutti».
E così è approdato ai social.
«Ho iniziato con Twitter, nel 2015. Postavo tre contenuti di storia dell’arte al giorno. Quando andavo in vacanza, preparavo 30 post di fila per non lasciare nemmeno 24 ore scoperte. Gli amici mi snobbavano, preferivano Instagram. Ma io volevo arrivare al pubblico dell’editoria. Dopo quattro anni, mi hanno chiamato da Rizzoli per il primo libro, che poi è stato trasformato in pillole video intercettate da un’autrice che lavorava con Massimo Gramellini: la tv è arrivata così».
La strategia ha pagato.
«Mi interessava l’idea di essere un promotore di democrazia del sapere. Di diventare quello che traghetta la conoscenza dal mondo dell’università verso la riva del grande pubblico».
Divulgazione e accademia non sono mai andate d’accordo, anche nella storia dell’arte. Lei ha studiato alla Sorbona. Come vanno le cose?
«I rapporti sono più sereni adesso, anche se, soprattutto sui social, percepisco ancora una certa tensione, quando gli universitari invitano a diffidare dei personaggi televisivi. Si ha come la percezione che l’accademico sia esaustivo e il divulgatore l’esatto opposto. Ma parlare per 90 secondi di Guido Reni non significa sapere solo quello che si dice in quei 90 secondi. Il bravo divulgatore lascia intravedere spiragli da approfondire».
Federico Zeri e Philippe Daverio sono stati emarginati dall’università. Lei è nato nel 1994; ha recuperato i loro video?
«Mi sono nutrito di quello che hanno fatto. Zeri è stato il primo a capire che qualsiasi contenuto veicolato dalla scatola televisiva dovesse essere un grande spettacolo. Le sue erano messe in scena di storia dell’arte. Con una palandrana dorata, ospite a Mixer, faceva capire che il discorso deve essere assolutamente aderente all’immagine. Di Daverio apprezzo la capacità di umanizzare l’opera d’arte, di ricondurla a una rete di informazioni, pettegolezzo colto, di emozioni. Il fattore umano risulta molto sottolineato. Il divulgatore non deve valorizzare se stesso, ma il contenuto che offre».
Come divulgatore non si pone il problema di “spingere” artisti meno popolari, invece di nomi ormai cannibalizzati come Leonardo o Caravaggio?
«C’è una storia dell’arte tutta da riscrivere, ovviamente. Ci sono le artiste da valorizzare, non soltanto perché donne, o quando si parla di violenza, parità e amori delusi. Non solo Artemisia e Frida, insomma. Penso a Jeanne Hébuterne, di cui nel nuovo libro pubblico due opere. Tutti la conoscono per la storia tragica con Amedeo Modigliani. Tra gli uomini, poi, è importante rivalutare tanti schiacciati nei grandi movimenti. Nei miei interventi inserisco spesso Lorenzo Lotto: è stato sì un grande del Rinascimento, ma non è che le sue opere oggi siano note ai più».
Il suo libro affronta la Parigi dei primi vent’anni del Novecento. Un periodo di passaggio generazionale nella storia dell’arte con l’arrivo di Picasso, Brancusi, Modigliani... Perché ha scelto di concentrarsi su questo tempo?
«Perché storicamente è una sorta di no man’s land tra il periodo glorioso di fine Ottocento e quello fantasmagorico degli anni Venti e Trenta. I primi 20 anni del secolo sono una sorta di brodo primordiale in cui si formano le grandi correnti dell’arte moderna: fauve, futurismo, cubismo. Volevo riportare questi movimenti alla loro componente umana. Il cubismo, per esempio, nasce dalle cene tra gli artisti. Mi piaceva ricostruire gli incontri, gli indirizzi… Quando arrivo in una grande capitale dell’arte mi scontro sempre con la mia frustrazione di cercare di vedere oltre la città contemporanea».
Parigi è stata la sua città.
«Per otto anni. Nelle passeggiate ho sempre immaginato com’era prima. Quando ci sono arrivato, I segreti di Parigi di Corrado Augias è stato una guida. Ecco, volevo realizzare qualcosa di simile per la storia dell’arte. Ho letto le storie degli arrondissement e mi sono ritrovato con una mappa di indirizzi che ho cercato di condensare nel libro. Qualcuno potrà utilizzarlo come uno stradario del passsato».
Dal libro viene fuori un’idea di comunità che anche tra gli artisti non esiste più.
«Gli artisti di allora erano un po’ come gli studenti in Erasmus. Tutti per lo più tra i 19 e i 24 anni. Mi piaceva l’idea di rendere questi personaggi vivi senza inventare nulla, ma citando le loro parole usando le fonti. Arrivavano da tutta Europa, ma Parigi li accolse senza sradicarli. Modigliani portava con sé le stampe dell’arte senese del Trecento; Chagall la cultura yiddish; Foujita il suo Giappone. Questi linguaggi finivano per mischiarsi e contaminarsi da un appartamento all’altro. Ognuno alla fine poteva trovare il suo, unito al grande repertorio di immagini che già costituivano i musei della capitale francese».
A proposito di musei, lei da un anno è presidente della Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza, nota per il “Ritratto di signora di Klimt”. Come si cambiano i musei? E come si usano le nuove tecnologie per farlo?
«La pandemia ha spinto i musei a lavorare finalmente sulla fruizione non solo fisica del patrimonio. Ogni museo deve diventare anche un content creator, un divulgatore di se stesso attraverso una piattaforma multimediale. Bisogna arrivare a tutti i pubblici diversi, digitalizzare archivi e collezioni e organizzare eventi dove usare le opere d’arte come generatrici di dibattito. Anche in Rete, i musei devono interrogarsi sulla propria identità. C’è chi usa i social come se fossero le vecchie bacheche di sughero dove esporre le informazioni. Ecco, questo non si può più fare».
Il libro
La grande Parigi di Jacopo Veneziani (Feltrinelli, pagg. 272, euro 30)