la Repubblica, 1 dicembre 2023
Il diritto allo sciopero
Il diritto allo sciopero è garantito dalla Costituzione all’articolo 40, che stabilisce che esso si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano.
Le leggi che lo regolano sono intervenute solo nel 1990 quando è stata approvata la legge 146 che dice che il diritto di sciopero si deve contemperare, nei servizi, con i diritti della persona costituzionalmente tutelati. Ad esempio, se negli ospedali scioperassero tutti i medici e tutto il personale, ci sarebbe una lesione dei diritti degli utenti che non potrebbero curarsi, sarebbe leso un fondamentale diritto alla cura della persona. A favore del diritto alla cura, il diritto allo sciopero, pur sempre un diritto fondamentale, costituzionalmente riconosciuto, andrebbe temperato.
Quando invece si vuole pretendere di precettare (e non solo temperare) il diritto allo sciopero per garantire diritti di una determinata azienda a produrre in un dato giorno in cui è stato chiamato uno sciopero, o il diritto per gli utenti alla mobilità, ai trasporti, a viaggiare senza disservizi nel giorno dello sciopero, o andare in vacanza, si è fuori contesto. Del resto, in questi casi non vi è un vincolo assoluto per l’utente dei servizi del trasporto a non muoversi in città, o a non raggiungere il proprio lavoro, ma solo un disagio nel raggiungere la propria destinazione. Se è in gioco un mero disagio degli utenti, con il temperamento dovrebbe prevalere il diritto allo sciopero, altrimenti si rischia di andare oltre la tutela promossa dalla legge 14690 che sul punto promuove l’autoregolazione e la responsabilità delle parti sociali.
Anche allorquando si evochi il diritto al lavoro (per i lavoratori che non vogliono scioperare) bisogna precisare che in realtà non esiste alcun sacrificio dei diritti di chi non vuole scioperare. Chiunque potrà infatti non aderire ed esercitare il suo diritto al lavoro. Anche il contemperamento tra il diritto di chi sciopera e di chi no, sta nella previsione concordata dei servizi minimi essenziali, vero strumento di bilanciamento tra i diritti costituzionali di tutti gli attori coinvolti.
Il conflitto tra il ministro dei Trasporti Salvini e i leader della Cgil e della Uil, Landini e Bombardieri, pur riconoscendo che ci possano essere opinioni e posizioni politiche diverse, dovrebbe essere letto all’interno delle norme del nostro ordinamento, e quindi osservare semplicemente che nei casi recenti di sciopero chiamati organizzazioni sindacali, non si è mai leso un diritto fondamentale alla persona, quindi lo sciopero andrebbe (e andava) pienamente garantito.
Del resto, la sorveglianza di questo equilibrio delicato tra diritti fondamentali, secondo la legge, spetta prima di tutto alle stesse parti sociali e in seconda battuta alla Commissione di garanzia degli scioperi.
La Commissione di garanzia, molto strumentalizzata nei giorni scorsi, non ha mai affermato che non c’era un diritto allo sciopero o che questo andava temperato perché contrastante con altri diritti fondamentali. Ma ha semplicemente affermato che, nel caso dello sciopero generale del 17 novembre, non si configurava uno sciopero generale perché non tutti i settori avevano aderito. Configurare uno sciopero come generale o come uno sciopero di qualche categoria ha solo un impatto nella regolamentazione dello sciopero, e in alcuni obblighi previsti da parte della Commissione di garanzia, che sono diversi nell’uno o nell’altro caso. La Commissione di garanzia, sebbene ente indipendente, deriva da una nomina politica, da parte dei presidenti di Camera e Senato, che come è noto sono espressione della maggioranza. Essa, consapevole del fatto che il nostro ordinamento tutela lo sciopero nei limiti che abbiamo detto, non si è permessa di avanzare una interpretazione diversa, perché avrebbe ricevuto critiche forti dalla dottrina e dalla comunità accademica. Tuttavia la commissione ha fatto qualcosa di originale, innovativo e forse anche bizzarro: per la prima volta è entrata nella decisione di configurare uno sciopero come generale o categoriale. Questa posizione a molti è sembrata intrusiva, invadente dell’autonomia dei sindacati, ai quali spetta il diritto di chiamare uno sciopero generale e di configurarlo tale. Non spetta ad un organo di garanzia definire cos’è uno sciopero e soprattutto le sue modalità attuative. La legge riconosce questo diritto ai sindacati e individualmente ai lavoratori.
L’articolazione dello sciopero generale chiamato da Cgil, Uil e Usb, su loro scelta, era su due giorni, con alternanza di alcune categorie in un giorno e altre in un altro giorno, differenziando le categorie anche per territori e città. Questa scelta, molto probabilmente, è stata fatta proprio per limitare i disservizi e per temperare il diritto allo sciopero con altri diritti fondamentali.
La posizione della Commissione di garanzia del resto sembra sbagliata perché lo sciopero non era categoriale ne aziendale, ma generale a tutti gli effetti. Inoltre era rivolto contro l’impostazione della legge di bilancio e si configurava come uno sciopero definito in dottrina di natura economico-politico, di cui i sindacati hanno tutto il diritto. Entrando nel merito della identificazione dello sciopero come generale o categoriale, la Commissione ha dato una indicazione che rimanda ad una teoria vecchia e anacronistica, degli anni Cinquanta, chiamata “tesi definitoria”, in cui il giudice (perché allora non esisteva la Commissione di garanzia) decideva ciò che era sciopero e ciò che non doveva essere era tale, secondo lui, molto spesso con arbitrarietà e faziosità. Un ritorno al passato, con diritti fondamentali violati, in contrasto con la nostra società aperta e democratica.